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Il mio amico Luso mi ha appena fatto notare che il nostro (nel senso, il suo, il mio e di una manciata di altri personaggi come noi che fra un paio di righe si riconosceranno immediatamente) è un universo inesorabilmente suddiviso in as-is e to-be, dal quale non c'è alcun modo per noi di evadere, indipendentemente dal tipo di lavoro, di business e di cliente con il quale abbiamo ed avremo a che fare per tutto il corso della nostra vita professionale.
E dunque mi appresto a passare le prossime notti guardando il soffitto, nel vano tentativo di rispondere al dubbio se, effettivamente, sia davvero possibile o meno uscire da questo schema e sviluppare una qualunque delle nostre presentazioni sulla base di regole esistenziali e filosofiche completamente differenti.
So di aver rovinato il pomeriggio a buona parte di voi. |
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A quanto pare, a Villasanta (undicimila abitanti o giù di lì) siamo (almeno?) in due ad avere la maglietta dell'Hard Rock Cafè di Kuala Lumpur. |
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Findel Airport, Luxembourg, un normale lunedì mattina. Siamo atterrati in perfetto orario, insieme ai voli da Berlino, Francoforte, Londra. Tutto come al solito. Folla in uscita, gente di fretta. La polizia non ferma mai nessuno qui e del resto siamo praticamente tutti uguali: divisa d'ordinanza, auricolare, trolley e borsa con il pc.
Oggi però ne fermano due a caso. Coda. Gli controllano i documenti, gli fanno aprire le valigie, un sacco di domande. Sono una coppia, lui e lei, potrebbero essere tranquillamente due qualunque di noi, con i loro trolley e i loro auricolari. Solo, sono di colore. Neri, per la precisione. Nerissimi. Gli unici. Gli unici che, in sei mesi che atterro qui a Lussemburgo e almeno a mia memoria, abbia visto e gli unici che abbia visto fermare dalla polizia.
Non è razzismo (anche) questo? |
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Emanuela ed io ci siamo incrociati questa mattina alla Malpensa: io in partenza per Lussemburgo con il volo delle 8.45, lei proveniente da Venezia con quello delle 8.30. Ci siamo dati il buongiorno via sms, perché troppo sincronizzati per riuscire a vederci.
Poi. Questo pomeriggio ero in Belgio: mi ha telefonato perché le facessi io il telecheck-in direttamente via Internet per non perdere l'aereo. Detto, fatto, in tempo reale a ottocento chilometri di distanza.
Più ci penso e più mi sembra che in tutto ciò debba esserci una qualche morale che mi sfugge. |
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Ci sono giorni in cui all'improvviso, senza ragione apparente,
mi guardo allo specchio e mi chiedo chi sono. Vorrei uscire
fuori da me stesso per osservarmi, vedere quello che gli
altri vedono, imparare cose di me che ancora non so. Ci
sono giorni che non riesco a trasmettere cose e non c'è
verso, per quanto mi sforzi è come se comunicassi
in Braille.
A volte è come essere un pipistrello impazzito dentro
ad una stanza buia che sbatte contro i muri: devo averlo
detto altre volte e ricordo a chi rubai l'espressione.
Ci sono giorni in cui l'unica cura sarebbe aria sottile.
Perché è di quello che ho bisogno. E comunque
io lo so chi sono. Deve essere per questa ragione che, fra
le poche fotografie che ho di me stesso, amo questa in particolare.
Perché io sono esattamente così.
Io lo so quando cambia la luce nei miei occhi. Quando l'orizzonte
si alza verso il cielo e i miei occhi possono seguirlo. Da
lassù ogni cosa mi appare diversa. |
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E' che io voglio salire l'Everest. Ora, lo so che sono noioso. Ma vi spiego: ci sono quasi nato con questo sogno che mi martella in testa. E non è che debba per forza salirlo, l'Everest. Potrebbe essere anche, che so, lo Shisha Pangma. O il Gasherbrum II. O il solito Cho Oyu. Insomma, io voglio il mio 8000 e certo fosse mai l'Everest avrei anche fatto scopa. Ma diciamocelo: avendo salito il Cho Oyu, volete che a quel punto non ci provi davvero con l'Everest? Sta di fatto che non è tanto una questione di Everest o meno. Ce ne sono decine, prima, che vorrei salire. Devo farvi l'elenco? Detto ovviamente delle Seven Summit, ci sarebbe anche il Muztagh Ata. E l'Illimani. E l'Alpmaio. Ma anche, perché no, il Chimborazo, il Pumori, le cinque cime dello Snow Leopard, l'Eiger, una trentina di 4000 che ho nel cassetto da una vita. E' che io ci sono cresciuto con il sogno dell'Everest e non lo mollo, no. Lo tengo con i denti, credetemi. E se non saranno ottomila, potete scommetterci che mi ci avvicinerò parecchio.
E' che io voglio attraversare l'Africa, da una vita. O meglio, volevo attraversare l'Asia, l'Africa, e l'Antartide. Intanto, con l'Asia sono a posto. Oddio, a ben vedere ho ancora un piccolo progettino nel cassetto, che tengo di scorta, fra Peshawar, Kabul e Dushambe: Kyber Pass, Irkeshtan Pass, Kunjerab Pass, uno dietro l'altro. E tutto sommato è un sogno molto più dietro l'angolo di quanto crediate.
L'Antartide può aspettare, per ora. E' quasi un progetto da pensione. Ma l'Africa, l'Africa no. L'Africa ce l'ho dentro da quando ho imparato a sognare in orizzontale. Servono altri sei mesi, forse solo quattro. Si troveranno, non sarà mai questo un problema. Ho la rotta stampata in testa, ho la musica che mi accompagna nelle orecchie, ho lo zaino pronto sulle spalle: il quadro astrale arriverà, come è stato per l'Asia. Potete scommetterci: prima o poi vi bloggo l'overland in Africa.
E' che io sono i miei sogni, o non sarei qui a parlarvene. Io sono sempre stato i miei sogni e i miei sogni sono sempre stati gli stessi. Li avevo a quindici anni, li avevo a venti. E poi a trenta. E hanno doppiato i quaranta. E non crediate, la lista è sempre lunga, ma ho tirato molte righe nel frattempo, almeno tante quante ne ho aggiunte di nuove. Certo, ho un figlio. Certo, ho famiglia. Certo, ho un mutuo, una casa, un lavoro. E dunque? C'è spazio per tutto dentro questa testa, vi assicuro. E fiato a sufficienza in questi polmoni. E resistenza quanto basta in questo cuore. E continuerà ad esserci tutto questo, per molto tempo a venire, o non sarò più io.
Io, che mi ci addormento da sempre con i miei sogni. Sera dopo sera, mese dopo mese, anno dopo anno. Beh, a volte sogno altro, che domande. Ma è per farvi capire. Intendo, I mean: non è una metafora. Io vado a letto, chiudo gli occhi e vedo la linea di salita che dal campo avanzato del ghiacciaio orientale di Rongphu sale al Colle Nord, per proseguire poi lungo la cresta nord, fino al primo step, e poi al secondo, oltre il terzo, fino in vetta. Vedo il canale del couloir Norton incidere la parete nord alla mia destra e, una volta sbucato in cresta, ormai sopra agli ottomila, la parete del Kangchung precipitare ad est, alla mia sinistra, in un oceano di ghiaccio e seracchi, verso la valle di Karta, quattromila metri più in basso. Ci credereste? Sento il rumore dei miei ramponi mordere il ghiaccio e l'odore del vento in quota e l'aria sottile che mi colpisce la pelle del volto, e me la trafigge come punte di spillo.
Lo studio da quasi trent'anni, l'Everest. Quasi come ne conoscessi ogni sasso - e ce l'ho un sasso dell'Everest, fra i miei scaffali, raccolto quattro anni fa a Rongphu - ed ogni volto che è stato lassù, ogni impronta lasciata, ogni respiro in aria sottile. Gli uomini, i sassi, la storia, la geografia, il clima, l'orografia. Ché salire dal Colle Sud non è come la via dal Colle Nord. Ché L'Hillary Step non è uno scherzo e le cornici terminali fanno paura. Ché dall'anticima sud ti tocca ridiscendere, e poi risalire. Ché la ovest è interminabile e dura, davvero dura. E non parliamo poi delle vie di parete.
Ne faccio quarantuno fra qualche giorno. E io ci credo che sono nell'età dell'oro. Credo nei miei sogni perché io sono quei sogni. Ma, mi guardo in giro e vi chiedo: com'è che sono rimasto solo? |
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Sabato sera me ne stavo sul divano in stato catatonico
davanti a Gaia - no, non è mia figlia, né
un cane (conosco qualcuno che ha un cane, pardon, cagna,
di nome Gaia), ma il programma in onda su Raitre condotto
da Mario Tozzi: per intenderci, quel tipo che se ne va in giro
con il martelletto a romper sassi fra uno spezzone di documentario
e l'altro.
Io sono un documentarofogo. Sono cresciuto divorando i filmati
in bianco e nero di Avventura, che forse qualche
coetaneo ricorda: primi anni '70, sigla iniziale "She
came in through the bathroom window", nella versione
di Joe Cocker (ma il brano era dei Beatles, se non sbaglio);
sigla finale la mitica "A salty dog" dei
Procol Harum.
Credo di aver iniziato a viaggiare in quel modo, davanti
al Radiomarelli di plastica bianca che trasmetteva documentari
preistorici e voi, giovani tecnosbarbatelli cresciuti sul
satellite con il National Geographic, nemmeno potete immaginare
la poesia dei pinguini di Magellano in black-and-white-antenna-permettendo.
Poi vennero il buon Fogar ed il suo Jonathan, ma eravamo
già nel futuro ed io, che non ho mai giocato a pallone,
collezionavo di conseguenza i miei due di picche: è
piuttosto difficile competere con chi tira i calci di rigore
e magari è fresco di patente se tu, prossimo ai diciotto,
non hai nemmeno il motorino e continui irrimediabilmente
a preferire i pinguini di Magellano alla Domenica Sportiva.
Di buono c'è che poco tempo dopo, io, i pinguini
di Magellano sono andato a vederli davvero, mentre di norma
chi tirava calci al pallone è rimasto a casa a guardarsi
la Domenica Sportiva. Di buono c'è anche che, benché
sia statisticamente non banale, trovata una donna che ami
i pinguini di Magellano quanto voi, con buona probabilità
vi amerete tutta la vita. Trovare una donna che ami la Domenica
Sportiva è perlopiù utopistico.
Guardavo dunque Tozzi, e riflettevo così sullo scorrere
della vita e l'evoluzione della nostra società, sotto
all'inusuale angolo di osservazione della produzione dei
documentari. Che a voi sembrerà una fesseria, ma
è solo perché guardate Angela junior (che
poi, a ben vedere, a me induce le medesime riflessioni).
Il fatto è che una volta (ai miei tempi, signora
mia...) un documentario era un documentario. Cioè:
ti beccavi i pinguini di Magellano e quello guardavi per
un'oretta buona, oppure cambiavi canale (ma ai tempi di
Avventura c'era ben poco da cambiare). In ogni caso,
se non ti addormentavi sul divano, o se Avventura
non era solo un buon pretesto per limonare sul divano medesimo,
alla fine dei pinguni di Magellano sapevi più o meno
tutto lo scibile e potevi far l'appello chiamandoli uno
ad uno per nome, o in alternativa tentare la difficilissima
carta di conquistare la tua compagna di banco con le teorie
sugli ecosistemi dei pinguinidi, che comunque fa sempre
un po' alternativo.
Ecco: sabato sera il tema di Gaia era "Influenza aviaria",
e fin qua vabbè, anche se trovo di difficile applicazione
utilizzare il soggetto in questione con la compagna di banco, soprattutto
se avete il raffreddore.
Si parla insomma di virus - cosa sono (se sto ai disegni
di Gaia, delle palle viola con gli spillini, tipo riccio),
come si diffondono e bla bla bla - e di polli. Nel giro
di pochi minuti la trama scivola sull'influenza spagnola,
che tutto sommato ci sta. Quindi - siamo negli anni '20
- ci si fionda dentro alla prima guerra mondiale ed alla
vita di trincea. Inizio a perdere un po' il filo, ma sembra
interessante.
Riempio la lavastoviglie, imposto il programma automatico,
asciugo il lavandino e tiro un orecchio alla tv: siamo a
Chernobyl e stiamo parlando del disastro dell'86. Come ci
siamo arrivati non ne ho la minima idea, ma quasi non faccio
a tempo a chiedermelo che già stiamo parlando di
produzione di energia nucleare e confronto con i sistemi
a carbon fossile. Quindi mi appare di colpo Tozzi con il
suo martelletto: è in Sardegna e martella sassi qua
e là. In pochi secondi riesce a convincermi dell'evidente
legame fra energia nucleare e ricerche sul DNA: infatti
ecco lo stesso Tozzi che, all'interno di un laboratorio,
sputa dentro ad una provetta (sic!) per farsi analizzare
il suo codice genetico.
Ora, mentre alle mie spalle parte il programma automatico
a 55º per piatti normalmente sporchi, mi aspetto di
assistere a chissà quali rivelazioni sugli antenati
del buon Mario e invece no: si cambia di nuovo scena e agganciamo
il problema delle megàttere dell'Oceano Artico, che
nel XX secolo sono state decimate dalla pesca selvaggia.
Inizio ad innervosirmi e a pensare seriamente di cambiar
canale e passare alla De Filippi, che in fondo è
sempre un bel documentario sui disturbi della personalità
umana.
Ma voi lo sapevate che l'ecosistema delle megàttere
influenza quello dei leoni di mare e dei cormorani imperiali?
E che, soprattutto, c'è un invisibile legame con
i fossili del pleiocene presenti nei basalti degli altipiani
della Sardegna centrale? Perché, che ci crediate
o no, novemila anni fa un'antica civiltà che viveva
nel deserto di Atacama in Cile mummificava i propri morti
molto prima che lo facessero gli egizi e non vi dico, da
allora, come si è sviluppata Città del Messico,
che oggi affoga sotto ad una cappa micidiale di smog, mica
come al tempo degli aztechi che costruivano le piramidi
una dentro all'altra e sono misteriosamente scomparsi per
far spazio al veleno della vedova nera e ai lombrichi della
Papua Nuova Guinea, che dal canto loro divorano le foglie
di eucalipto, no, quelle se le mangia il Panda che però
vive in Cina e il problema del buco dell'ozono non lo sfiora
perché mica sta in Antartide, dove i conquistadores
spagnoli non sono arrivati e quindi non c'è la spagnola,
e quindi non ci sono i virus e quindi nemmeno i polli.
...Oooolaaa! Nemmeno il Bersaglio della Settimana
Enigmistica (perché avete presente, vero, il Bersaglio
della Settimana Enigmistica??) sarebbe riuscito, nello spazio
di un'ora e mezza, a permettervi di fare un volo così
pindarico. Merita una standing ovation con ola dal divano
di sinistra a quello di destra.
Non ci ho capito una mazza e mi gira la testa, ma il risultato
è affascinante: il più straordinario gioco
di incastri demenziali e neosillogismi che la mente umana
possa partorire mi ha portato dall'influenza aviaria a Chernobyl,
al DNA, alle megattere, a città del Messico e ritorno
diretto al via, dentro alla palla viola con gli spillini.
Vi dicevo che riflettevo sulla vita e sulla nostra società:
a pensarci, Gaia non è altro che lo specchio fedele
della nostra era. Consumo irrefrenabile, rapidità,
grandi immagini (stupende: quanto ad effetti speciali, "2001,
Odissea nello spazio" gli fa le pippe ai documentari
di oggi). Contenuto prossimo a zero. Non ci capisci un tubo,
ma ti droghi di colori e immagini, e al termine dell'indigestione
ti sembra di aver mangiato da dio.
Però, quando mangiavi in trattoria consumavi lentamente
un solo piatto mediamente buono, il vino non era sofisticato
e il giorno dopo ti ricordavi la ricetta e potevi provare
a replicarla a casa.
E va bene, dite pure che sto diventando un vecchio rompiballe
che ai-miei-tempi-signora-mia. Comunque io domenica mattina
non mi ricordavo già più perché le
megattere dell'Oceano Artico non si soffiano il naso e come
hanno fatto a scoprire il DNA facendo saltare in aria Chernobyl.
Ma, soprattutto, perché accidenti i polli mummificavano
gli spagnoli. O erano gli spagnoli a cucinare dentro alle
piramidi?
Diavolo di un Tozzi. |
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Mi capita sempre più spesso. Al mattino, ad esempio,
davanti allo specchio, mentre osservo i miei occhi stanchi.
Quando passo davanti a una vetrina e vedo la mia immagine
riflessa. Quando gioco con Leonardo e rimango sdraiato sul
pavimento, di fianco a lui, con gli occhi chiusi. Quando
cammino davanti a una scuola ed incrocio i ragazzi che escono.
O nei bar, a mezzogiorno, quando mi siedo da solo a un tavolino
e mangio stancamente il mio panino leggendo il giornale,
mescolato agli studenti universitari.
Od oggi, percorrendo il corridoio fra gli uffici ed osservandomi
riflesso nella porta a vetri, con addosso il mio completo
grigio, la cravatta rossa, gli occhiali. Forse gli occhiali
giocano la loro parte: non li ho praticamente mai portati
fino a un anno fa, abituato ad indossare le lenti a contatto
fin da quando avevo quindici anni.
O forse sono i capelli bianchi, che ormai ingrigiscono quasi
del tutto le mie tempie e in fondo mi piacciono. Non ho
mai capito quelli che se li tingono per sembrare più
giovani.
E mi accade al mattino in macchina, mentre sono fermo nel
traffico e sbircio il Corriere appoggiato sul sedile a fianco.
O mentre sono seduto in banca a parlare di investimenti,
o davanti al telegiornale, rimuginando fra me e me le notizie.
O quando leggo il mio amato Alp. O mentre saldo il conto
alla reception di un albergo. O mentre annodo la cravatta,
prima di uscire per andare al lavoro.
Mi accade sempre più spesso, di vedermi invecchiare.
Che è diverso dal sentirsi vecchio. Se ho un conflitto
irrisolto con me stesso, è il medesimo da sempre:
il complesso di ritrovarmi sempre troppo giovane in mezzo
ad un mondo che mi invecchia attorno molto più rapidamente
di quanto scivoli via il tempo addosso a me. La sindrome
dell'ancora troppo giovane, inadeguato, in anticipo: mi
accompagna da che possiedo dei ricordi.
Eppure, in qualche modo, va ora ad aggiungersi la consapevolezza
dell'essere troppo vecchio in altre vesti, inquadrato da
un angolo di ripresa differente, circondato da ragazzini
che si sentono sempre molto più grandi di quanto
non siano in realtà. E puoi leggerlo così
bene, ora, nei loro occhi: che non hanno davvero la minima
idea di come gli si srotolerà la vita e di quanto
rapidamente il passato si allontanerà davanti a loro,
inghiottiti da un futuro che non dà possibilità
alcuna di frenata.
L'ho detto spesso: non ho mai avvertito i trenta, anzi,
ho sempre pensato che fosse l'età dell'oro. Ma il
passaggio dei quaranta, sì: una sorta di clic c'è
stata. Perlomeno, quel qualcosa che ti porta, da un giorno
all'altro, a guardarti allo specchio e a non vedere più
la stessa persona che vedevi prima. O meglio, lo stesso
ragazzo.
Che sia vero, che sia dunque il passaggio dal ruolo di figlio
a quello di padre. Che sia quello l'istante della vita che
ti cambia, dentro e fuori. Deve esserci sicuramente molto
di vero e ciò che è certo è che, nel
mio caso, diventare padre e doppiare la boa dei quaranta
sono stati due eventi quasi contemporanei. Psicologicamente
non semplice da metabolizzare all'improvviso.
Comunque la giri, quel ragazzo dentro di me non c'è
più. Forse non è proprio sparito del tutto,
ma di sicuro si è nascosto molto bene.
Emerge qualcosa di molto diverso, quel cuore infantile che,
al contrario, non mi ha mai abbandonato e che credo sia
parte integrante di me e sempre lo sarà. E' quello
spirito con il quale, oggi, faccio la lotta con Leonardo
rotolandomi nel lettone, o gli insegno a fare le pernacchie,
o gioco con lui a farci le boccacce. E quando lui ride,
io sono felice e mi commuovo, perché so che stiamo
comunicando davvero, che ciò che ci lega è
solido e tangibile, che in me riconosce il suo papà,
che c'è (anche) il mio dna nel suo sorriso.
Quando si accoccola fra le mie braccia e se ne sta lì
per qualche minuto, a pensare, senza parlare: lo sento riflettere,
avverto il suo respiro e mi rendo conto che è lui,
ora, quella gioventù che non mi appartiene più:
è come se gliel'avessi trasferita. E sono decisamente
un'altra persona rispetto all'immagine che guardavo allo
specchio fino a un paio di anni fa.
Non l'ho mai sopportato - né lo sopporto: non ti
senti dire altro dal momento in cui comunichi al mondo intero
che la famiglia sta per allargarsi. Ti chiedono di che sesso
sia e subito dopo ti affogano nel luogo comune: "Eh,
vedrai, i figli ti cambiano la vita"
Cosa è cambiato nella nostra vita? Io continuo ad
amare le cose che amavo prima, ad emozionarmi per gli stessi
eventi, gli stessi colori e i medesimi profumi, continuo
a credere in quello in cui credevo prima, continuo a sognare
gli stessi sogni, a fare lo stesso mestiere, a progettare
gli stessi progetti. Sono più stanco, certo. Molto
più stanco. E ho sempre meno tempo per me stesso,
o non ne ho quasi più del tutto: lo strappo alla
notte, che a ben vedere è un po' come strapparlo
alla vita, perché sulla distanza ti logora, non è
che non lo sappia. Probabilmente, buona parte di quella
stanchezza si riflette nello specchio, mentre mi guardo.
Cosa vedo? Prima vedevo un ragazzo dall'età indefinita
e sempre quello ho visto fino a qualche tempo fa. Ora c'è
un uomo di quarant'anni, con il suo abito grigio e i suoi
appuntamenti di lavoro, la station wagon, il cellulare,
il Corriere sotto al braccio, il mutuo, i bruciori di stomaco,
la pancetta. Quello sguardo serio.
Ecco, lo sguardo: è quello che davvero non riconosco
più. A volte mi chiedo se sia sempre il mio.
Mi sembra di essere su un treno rapido che salta le stazioni,
mentre io vorrei sempre scendere a tutte, fermarmi in ogni
dove, avere tempo, immagazzinare, prendere appunti e fotografare,
e solo dopo ripartire.
Invece questo treno non si ferma, non si ferma mai e accelera
in discesa. Tutto mi passa davanti al finestrino così
rapidamente che spesso non riesco nemmeno a distinguere
il paesaggio, tranne vedere, inevitabilmente, sempre la
mia immagine riflessa nel vetro. Mi dà l'ansia, e
anche un po' di claustrofobia.
A volte, spesso, mi sento ancora inadeguato. Del resto,
evito da una vita - per quanto possa - ogni forma di confronto.
A volte ho paura e non so dove sia il freno di emergenza.
Ricordo molto bene mio padre a quarant'anni: io ne avevo
tredici.
A volte vorrei tornare a sedermi, da solo, sulla neve. Sentire
l'aria fredda che mi punge, e il silenzio attorno a me.
A volte vorrei ridere di più.
(*) Questo avevo in mente, poi ho attraversato il corridoio
dell'ufficio verso quella porta a vetri. |
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Ho ripreso in mano "Orizzonti di ghiaccio" di Reinhold
Messner, un libro che ho già letto almeno tre volte, scritto
a valle della spedizione in Tibet del 1980 che lo vide protagonista
di una delle sue imprese più memorabili: la prima salita
dell'Everest completamente in solitaria, effettuata fra
l'altro in periodo monsonico, senza alcun appoggio esterno,
senza collegamenti radio, senza naturalmente (per
lui...) uso di ossigeno supplementare e per giunta tracciando
una via parzialmente nuova sul versante settentrionale.
Salire la montagna - qualunque montagna in Himalaya, figuratevi
l'Everest - in periodo monsonico, non solo significava e
significa affrontare le peggiori condizioni climatiche in
alta quota che la vostra mente possa immaginare, ma voleva
e vuol anche dire trovarsi completamente da soli in uno
dei luoghi più inospitali del mondo nel periodo in cui,
qualche nomade o monaco tibetano a parte, le persone più
vicine si trovano a centinaia di chilometri di distanza.
Per i non addetti, due anni prima Messner aveva già salito
l'Everest con un compagno, realizzando la prima ascensione
assoluta senza ausilio delle bombole di ossigeno: un'impresa
fino a quel momento da molti ritenuta impossibile, alcuni
camici bianchi inclusi. Ecco, questa nuova impresa aveva
annichilito quella precedente.
Vi faccio un paragone, giusto per darvi la dimensione: è
un po' come se oggi qualcuno andasse sulla Luna da solo,
con un razzo a pedali costruito in casa, in costume da bagno,
cantando O' sole mio e durante lo sciopero della
Nasa...
Ora, per chi come me è cresciuto mangiando pane e libri
di Reinhold Messner, non vi è qui nulla di nuovo. E' anche
vero che quando si parla di Messner c'è sempre qualcuno
che sfodera il classico luogo comune amestasulcazzo,
chissà poi perché.
Così, sempre per i non addetti, e tanto per coinvolgervi
un po' nella faccenda, aggiungo che colui che vistasulcazzo
è stato il primo uomo a salire tutti gli ottomila
della Terra (e quattro di essi li ha saliti due volte...),
il primo a salire un 8000 da solo, il primo a salire un
8000 in periodo monsonico, il primo a concatenare due 8000
nella stessa ascensione, il primo a salire un 8000 completamente
in stile alpino (ovvero: tendina e sacco a pelo; niente
portatori, niente mega-spedizioni, ecc.), il primo a salire
tre 8000 nello stesso anno, il primo a salire l'Everest
senza ossigeno e pure da solo: anni '70 ed '80, preistoria,
quando erano ancora molti ad andare in montagna con i pantaloni
alla zuava e la fiaschetta di grappa, cantando La Montanara
(io lo faccio ancora oggi con Leonardo...).
Reinhold Messner era (ed è) quello che oltre Manica verrebbe
definito un visionary, un tipetto avanti anni luce
rispetto alla Storia.
Non ultimo, il nostro uomo è sempre tornato vivo. Capite
dunque che leggere i suoi libri e il suo modo di interpretare
la vita, e di raccontarla, non deve poi essere così male,
vi pare? Certo meglio che leggere la biografia di Baggio,
immagino.
"Orizzonti di ghiaccio", dicevo, è il racconto della sua
ascensione solitaria all'Everest del 1980. Già due anni
prima Messner era riuscito nell'impresa di salire per primo
al mondo un 8000, il difficile Nanga Parbat, completamente
da solo. Personalmente ritengo il libro dedicato a quell'ascensione
più bello di "Orizzonti di ghiaccio", ma mentre "Nanga Parbat
in solitaria" rientra nella più classica letteratura di
montagna, "Orizzonti di ghiaccio" è soprattutto il viaggio
in Tibet di uno dei primi occidentali riusciti ad entrare
nel Paese dopo l'occupazione cinese. Solo questo lo rende
già di per sé un libro che ogni appassionato di viaggi dovrebbe
custodire gelosamente nella propria biblioteca.
Per quanto mi riguarda, poi, a me Messner piace perché mi
riconosco fin troppo bene nel suo modo di porsi di fronte
all'esistenza quotidiana. Mi ci riconosco fin da ragazzo
e non mi vergogno affatto ad ammettere che a tratti gli
ho sempre "invidiato" il coraggio di alcune scelte - badate
bene: non del "coraggio alpinistico", che non è affatto
un metro con il quale misurare le ragioni di un'esistenza,
ma del "coraggio di essere", che è tutt'altra materia.
Mi ero proposto di rileggere il libro subito al ritorno
dal nostro viaggio
in Tibet del 2002, per ripercorrere il racconto
di Messner mettendolo a confronto con ciò che noi stessi
avevamo vissuto in prima persona, lungo la sua stessa rotta,
più di vent'anni dopo. Invece, solo qualche sera fa ho finalmente
ripescato quel volume quasi per caso fra gli scaffali della
mia libreria e, come sempre accade in questi casi, ho iniziato
a sfogliarlo distrattamente, andando a rivedere le sue vecchie
fotografie di panorami e volti ora anche a me familiari,
per poi iniziare a leggere qualche pagina a caso qua e là,
ed infine riaprirlo definitivamente dalla prima pagina.
In ventiquattr'ore l'avevo ovviamente già quasi terminato.
Divorato.
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...che non è l'argomento trattato fra queste
pagine, ma è la soglia di visitatori unici
al mese che Orizzontintorno ha sfondato. Quattromila, appunto:
che, supponendo stabile la media (in realtà è
in crescita, lieve, ma sempre costante), fanno quasi cinquantamila
naviganti all'anno che transitano da queste parti. Ecco
qui, nell'introduzione del resoconto degli accessi al sito
che ho scaricato ieri:
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Considerato che il periodo in esame va dal 24 dicembre al
23 gennaio, dunque con tutte le festività nel mezzo,
secondo me è un risultato importante. Anzi, fa un
po' girare la testa.
Suppongo che una buona parte di quei Visitors si
soffermino su queste pagine e in effetti, più avanti
nel resoconto, le statistiche confermano che il Giornale
di Bordo è il secondo punto di ingresso ad Orizzontintorno,
subito alle spalle della pagina principale.
Credo che avere qualche migliaio di lettori al mese sia
un successo per un sito amatoriale come questo che, tutto
sommato, non ha nemmeno un obiettivo chiarissimo, perlomeno
a noi due che ne siamo gli autori. Credo anche che avere
uno pseudoblog, letto da quelle stesse migliaia di visitatori
(fossero anche centinaia - certamente non lo leggono quel
21%, come minimo, di stranieri che transitano da queste
parti) non sia solo un successo, ma uno stimolo a cercare
il coinvolgimento continuo dei propri lettori. Che poi siete
voi.
Coinvolgimento: non necessariamente approvazione, ma interesse.
Peraltro, se ciò che scriviamo - scrivo, perlomeno:
Emanuela, di questi tempi, è totalmente assorbita
in altro - possa a volte turbare qualcuno, io non
so. Certo è che nessuno fino ad ora mi ha contattato
per insultarmi, nemmeno quando si è parlato di Baldoni,
di Beslan,
del maremoto,
tanto per dire.
Non che in generale scriva molta gente, a dire il vero.
I lettori di Orizzontintorno sono da sempre un popolo piuttosto
silenzioso, con poche eccezioni. Anche per questo ho sempre
dato la precedenza ad altri aggiornamenti al sito, invece
di risolvere definitivamente la questione dei vostri commenti
su queste pagine.
Quello che volevo dirvi, comunque, è: grazie. Uno
sta qui fino all'una di notte, spesso fino alle due, e poi
magari deve pure alzarsi alle cinque a dare il latte a Leonardo,
e di nuovo alle sette per andare in ufficio. Sì,
lo puoi fare per un mese. Ma la verità è che
vai avanti un anno e mezzo perché, piano piano, ti
accorgi della presenza dei tuoi lettori silenziosi e dei
visitatori che, mentre stai buttando dentro le immagini
del nostro ultimo viaggio, navigano fra queste pagine alla
ricerca, anche, di "sexy shop a Chiasso",
o "sei un pirla", o "riparare il
radiatore di una Fiat 500".
Certo, a quei due che sono atterrati su Orizzontintorno
cercando "mi scoppia la vescica", l'unica
cosa che posso francamente rispondere è "occupato".
A quanto pare, sembra comunque un problema molto gettonato.
Grazie davvero. Siete tanti e, all'improvviso, non so che
scrivere. Però, un ringraziamento particolare va
a coloro che quaggiù chiamiamo lo zoccolo duro,
i nostri irriducibili. Ad occhio, siete una trentina e passate
da qui quasi ogni giorno, metodicamente, addirittura più
o meno sempre alla stessa ora. Ciascuno di voi ha la propria.
Qualcuno lo abbiamo conosciuto strada facendo, con altri
abbiamo scambiato un paio di e-mail: comunque, vi contiamo
sulle dita di una mano. Gli altri irriducibili fanno invece
parte della maggioranza silenziosa, pur essendo sempre presenti.
Ne cito uno, perché - giuro - è quello che
mi incuriosisce di più: ci visita ogni giorno dalla
Federazione Italiana Giuoco Calcio. Ma c'è anche
l'amico misterioso dello studio legale Dewey Ballantine
(verremo citati in giudizio??), quello che invece si collega
dall'Enel. E che dire, poi, di colui che ci segue regolarmente
da Shangai, o dell'altro che ci legge da una (credo) facoltà
di architettura olandese... fra l'altro, ormai, arrivate
da quasi 100 Paesi! L'ultima new entry è proprio
di questo mese, dallo Sri Lanka (*).
Insomma, ci tengo a farvi sapere che, quattromila visitatori
mensili a parte, quello che considero davvero un successo
è sapere che qualche decina di persone si ostina
ad entrare quotidianamente qua dentro per leggere ciò
che scriviamo. Ritrovarvi ogni giorno è una conferma.
Perché, la considerazione non è mai troppo
ovvia: se tutte quelle quattromila persone che passano di
qua cercassero "videoclip hard" (ce ne sono, ce
ne sono...), significherebbe semplicemente che Orizzontintorno
è parecchio indicizzato sui motori di ricerca e non
necessariamente in modo significativo. E vorrebbe anche
dire che, ogni mese, quattromila persone transitano di qua
per pochi secondi solamente per scoprire che abbiamo fatto
perder loro del tempo.
Ma se invece ce ne sono trenta che tornano, allora vuol
dire che, almeno a loro, questo lavoro piace. Se do retta
a quel frammento di statistica là sopra, negli ultimi
trentuno giorni siete tornati, almeno una volta, in 901.
Non credo che vi siate tutti ostinati a cercar qua dentro
se "autovelox al buio funziona". Comunque,
nel caso, la risposta è sì. Credetemi.
(*) Come sempre, alcune statistiche
e curiosità le trovate qui.
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