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Son passato da papà e visto che è giorno feriale, nessuno in giro, e c’era una bella atmosfera tranquilla, come talvolta mi capita mi son fatto un giro lì dalle sue parti per dare un’occhiata, vedere se c’era qualcuno di nuovo, leggere le date, guardare le fotografie e immaginare la vita dietro ciascun ritratto.
Mi piace sempre farlo, mi comunica pace e serenità e mi lascio attraversare dalle sensazioni sul senso dell’esistenza.
E niente, lì a due passi mi sono imbattuto nel signor Fabio. Non lo avevo mai visto prima. Ci siamo guardati a lungo negli occhi, ho cercato di immaginarmi la sua storia e cosa gli fosse accaduto.
Sono rimasto lì un bel po’, impietrito a fissare la mia data di nascita scolpita nel marmo.
La vita è un cazzo di dado che rotola in giro a caso e io ne ho già buttata via fin troppa. |
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TAG: Vita, papà |
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Park Side Hotel, Ueno, Tokyo, una fresca serata di inizio
settembre. Valigie chiuse, non so come, ma chiuse. Passeggino
svuotato e pronto per essere impacchettato. Non avete idea
di cosa può accumularsi nella rete portaoggetti di
un passeggino durante un mese di viaggio in Giappone.
Dovrei forse raccontarvi di una frenetica giornata trascorsa
nell'incredibile Osaka che, a dispetto di quel che se ne
dice, credetemi: è imperdibile! Ma forse prima dovrei
dirvi della nostra sosta lampo ad Himeji, fra Hiroshima
ed Osaka. Ma forse, prima ancora, dovrei raccontarvi di
come ci sia capitato di dimenticarci non uno, ma due zainetti
sullo shinkansen, scendendo alla stazione di Osaka.
La testa, a dirvela tutta, è un po' altrove. Non
so perché solo oggi, all'improvviso, abbia realizzato
tutto il rumore. L'assordante rumore giapponese attorno
a noi. Il chiasso, i megafoni, la musica ognidove e ogniquando
a volume esagerato, il traffico e i treni e i cavalcavia
e i decibel a manetta nonstop. Ora c'è silenzio.
Stanza 501, Parsk Side Hotel. Last night in Tokyo.
Osaka, un paio di giorni fa. Appena scesi dallo shinkansen.
Tempo di prendere le scale mobili e rendersi conto che manca
qualcosa. E lo shinkansen, naturalmente, già ripartito
dopo i consueti tre minuti di sosta.
Dove va adesso? Ah, Tokyo. Ecco. Seicento chilometri più
a nord. Cosa c'era nei due zainetti? Oh, nulla di importante:
il passaporto di Emanuela e tutti i suoi soldi - per la
cronaca, i soli yen che ancora avevamo, in un paese dove
trovare una macchinetta ATM che accetti le carte di credito
internazionali è come cercare il Sacro Graal; la
telecamera e vabbè, quello per ora non è un
problema; i pannolini - tutti - di Leonardo e quello sì
che è un problemissimo, anche perché trovare
i pannolini in questo paese è come andare alla ricerca
dell'Arca perduta dopo aver trovato il Sacro Graal e ad
occhio Leonardo non ha ormai più molto tempo di autonomia.
E peraltro, senza soldi, come li ricompriamo i pannolini?
E peraltro, senza soldi, come ci arriviamo in albergo? E
peraltro, senza passaporto, come ci registriamo in albergo,
ammesso di arrivarci? Ecco, welcome in Osaka.
No, prima ancora. Memento. Lasciata Hiroshima, decidiamo
di fare una sosta al volo a Himeji prima di proseguire per
Osaka. Con gli shinkansen come al solito è uno scherzo.
Hiroshima-Osaka sono quasi trecento chilometri, coperti
più o meno da un centinaio di treni al giorno, nessuno
dei quali, naturalmente, impiega più di un'ora e
mezza. Una metropolitana, insomma. Una fermata a Himeji
per un paio d'ore, quindi, ci sta pacifica pacifica, perfino
partendo con calma da Hiroshima con lo shinkansen delle
10:10.
Himeji è famosa per il castello più bello
del Giappone, risalente al XVI secolo. Eccolo qui:
Arrivate ad Himeji alle 11:15, mollate tutti i bagagli al
deposito, correte al castello, visitate il castello, ritornate
in stazione, riprendete i bagagli, risalite sullo shinkansen
delle 13:02, durante il viaggio ammirate alla vostra destra
il ponte più lungo del mondo che collega Honshu a Shikoku,
arrivate ad Osaka alle 13:48 in tempo per pranzare e per essere
in albergo prima delle tre del pomeriggio, e avete dunque
ancora mezza giornata davanti per vagabondare un po' in città.
Fantastico, no?
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La San-in, costa all'ombra delle montagne, è
la costa dell'Honshu occidentale che si affaccia a nord
sul Mar del Giappone, in contrapposizione alla San-yo, costa
sul versante assolato delle montagne, che guarda a sud
verso il Mare Interno: poiché sono ormai quasi quattro
settimane che state leggendo del nostro peregrinare per
il Sol Levante, mi sembra giusto che vi pappiate anche l'ora
di geografia, così potete seguirci con più
attenzione.
Vi dirò anche, perciò, che Honshu è
la principale delle quattro maggiori isole che formano il
Giappone. Per dire, è quella dove si trovano Tokyo,
Kyoto, Osaka, Kobe e Hiroshima.
Il super Giappone della vostra immaginazione, quello delle
metropoli collegate dall'ultraveloce Shinkansen ("treno
lampo"), si è interamente sviluppato lungo San-yo.
Per contro, il San-in è una regione ancora oggi piuttosto
isolata, quasi per nulla visitata dal turismo internazionale
e mal collegata con il resto di Honshu. Per arrivarci bisogna
avere tempo, pazienza e qualche nozione dell'arte di arrangiarsi:
soprattutto se non si conosce il giapponese.
Nel San-in, su un fronte di circa ottocento chilometri,
si trovano quasi solo villaggi di pescatori, qualche cittadina
di dimensioni modeste, spiagge e tratti di costa incontaminati
e mare tipo Sardegna. Qui si trova anche Tango-hanto.
Giusto per non lasciare la lezione incompleta e fare un
po' il pierino, sappiate che le altre tre isole principali
del Giappone sono Hokkaido a nord, nota per le montagne
e perché vi si trova Sapporo, che immagino tutti
ricordiate come sede delle olimpiadi invernali del 1972;
Kyushu, la più meridionale, dove si trovano Nagasaki
e Fukuoka; e infine Shikoku, che si trova sotto ad Honshu
e delimita con quest'ultima il già citato Mare Interno.
A titolo di curiosità vi dirò infine che Hokkaido
è collegata ad Honshu dal tunnel sottomarino più
lungo del mondo, il Seikan, oltre cinquantatre chilometri,
dove transitano regolarmente i velocissimi Shinkansen. Kyushu
è a sua volta collegata ad Honshu dal tunnel sottomarino
Shin-Kanmon e da un ponte per il traffico stradale.
Shynkyu ed Honshu sono invece collegate da un ardito sistema
di ponti. Non male, eh?
Tutto ciò mi serve essenzialmente per raccontarvi
un paio di cose. Primo: questo viaggio, alla fine, coprirà
un itinerario di circa tremila chilometri, quasi tutti in
Honshu, toccandone praticamente tutti i luoghi di interesse.
Torneremo però a casa avendo messo un piedino anche
a Kyushu. Non riusciremo invece ad andare ad Hokkaido, come
pensavamo di riuscire a fare. Shikoku, poi, non ce la fileremo
proprio (e sarà sicuramente un peccato).
Fatti due conti, se tenete il nostro ritmo, ad occhio ci
vogliono fra i due e i tre mesi per visitare tutto il Giappone
ed averne una buona idea.
Secondo: c'eravamo lasciati dopo il Tango-hanto, su un treno
in viaggio lungo San-in. Ci ritroviamo in San-yo quasi una
settimana dopo, per la precisione in un hotel di Hiroshima
centro. In mezzo abbiamo cambiato un bel po' di trenini
locali per riuscire a percorrere tutta la costa San-in ed
arrivare in fondo ad Honshu con un paio di soste. Via tunnel
sottomarino, abbiamo quindi attraversato il braccio di mare
che ci divideva da Kyushu per fare una rapidissima puntata
a Fukuoka, che dell'isola è la metropoli principale.
Infine, siamo tornati ad Honshu ed abbiamo percorso a ritroso
la costa San-yo arrivando qui ad Hiroshima, dove ci siamo
fermati un paio di notti e dalla quale ripartiremo domani
alla volta di Osaka e Tokyo. Pant pant.
Terminata la consueta introduzione chilometrica, provo ora
a farvela breve. San-in: spettacolare. La linea ferroviaria
corre per centinaia di chilometri proprio sul mare, un mare
verde smeraldo ed immobile, costellato di isolette ricoperte
di vegetazione.
Gli efficientissimi trenini diesel che la percorrono, spesso
formati da un unico vagone, sembrano quasi degli autobus
su rotaia ed attraversano piccoli villaggi di pescatori
disseminati fra stupende spiaggete bianche incontaminate
e piccole baie circondate dal bosco. Pochissimi i centri
abitati di medie dimensioni. Noi, un po' a malincuore, abbiamo
fatto tappa proprio in due di questi, non fosse altro perché
ci era praticamente impossibile prenotare una qualunque
sistemazione nei villaggi che abbiamo attraversato, né
peraltro sapere in anticipo dove avremmo dovuto fermarci.
E con Leonardo nel team non si può giocare a tombola
e sperare nella provvidenza che sempre aiuta il viaggiatore
indipendente: un minimo di programmazione day by day
è necessaria.
Bianchi in circolazione in San-in: zero. A quanto pare siamo
gli unici turisti occidentali in giro da queste parti, e
a tal proposito vi dico una cosa: questa gente è
sveglia, cortese ed efficiente in modo straordinario. Che
poi la cortesia sia "finta", come si dice e si
legge, chissenefrega: provate a farvi un giro nella razzista
Cina settentrionale od occidentale e poi ne riparliamo.
O, senza andare tanto lontano: sarà meglio una cortesia
esagerata, per quanto finta possa essere, o la maleducazione
ed il menefreghismo dilaganti a casa nostra? E fra il razzismo
sottobanco dei giapponesi nei confronti dei bianchi, ed
il nostro nei confronti di neri, gialli, ecc, chi se la
passa meglio? Noi in vacanza in Giappone, o una famiglia
benestante del Senegal in vacanza in Italia?
Soste lungo San-in: Tottori, cittadina turistica nota per
le alte dune di sabbia. Nulla di che, ma una notte giusto
per spezzare il lungo viaggio e la sequenza di treni. Tottori
è comunque piacevole e piuttosto vivace.
E poi Hagi, famosa per le terrecotte, la cui produzione
venne importata dalla Corea alla fine del cinquecento. Ad
Hagi, piacevole cittadina sul mare dove la gente è
di una gentilezza quasi imbarazzante, meritano una visita
anche le antiche case dei samurai, testimonianza di un importante
passato feudale. Qui peraltro ci spiaggiamo anche un pomeriggio
intero, approfittando di una temperatura ottimale, di un
mare trasparente ed immobile, e di un litorale di sabbia
finissima lungo qualche chilometro e popolato - di domenica
pomeriggio, seconda metà di agosto - da non più
di quaranta persone. Per Leonardo, il paradiso terrestre.
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Le dune di
Tottori, San-in
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Antiche case
samurai, Hagi, San-in
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La spiaggia
di Hagi, San-in
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Le famose
terrecotte di Hagi
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Mr. Divyam ci preleva all'hotel di Kyoto alle nove e trenta
in punto del mattino del 23 agosto, come da accordi presi
via e-mail qualche giorno prima e dopo un'ultima telefonata
di conferma. Mr. Divyam indossa bermuda, t-shirt bianca
d'ordinanza, un asciugamano intorno al collo, infradito,
e viene a prenderci con un grosso fuoristrada Mitsubishi.
Mr. Divyam potrebbe essere sulla sessantina, appare subito
di una cortesia e di un'efficienza quasi outstanding
e, forse anche per questo, a pensarci bene potresti anche
dire che ti ricorda vagamente il Dr. Lecter.
Considerato che Mr. Divyam a) è il nome che si
è dato ai tempi in cui viveva in India, perché
in realtà lui è francese, originario dei sobborghi
di Parigi; b) non riuscirai a sapere molto di più
di lui, tanto meno il suo vero nome, e tranne che vive in
Giappone da più di vent'anni, che ha sposato una
giapponese, che ha un figlio ventiduenne giapponese e che,
a quanto pare, si è guadagnato da vivere nei modi
più strani in giro per mezzo mondo; c) sta per portarti
nella sua casa in Tango-hanto, in uno sperduto e quasi disabitato
villaggio di una delle regioni più isolate del Giappone,
dove non prende nemmeno il telefonino e figurati Internet,
cosa che in Giappone è quasi da pregiurassico; ecco,
considerato tutto questo e quella vaga somiglianza di cui
si diceva, a voler ben vedere potresti anche non essere
proprio proprio proprio del tutto tranquillo a metterti
completamente nelle sue mani per le prossime quarantott'ore.
Ma ormai sei in ballo. Sali sulla sua macchina (che ha pure
i vetri un po' oscurati...) e lascia pure le valigie. Ci
pensa lui a caricarle, come del resto ad offrirti un caffè
al primo Starbucks che incontrerete prima di lasciarvi Kyoto
alle spalle. Dopodiché ciao, butta pure il cellulare,
dimenticati Internet, rilassati (?) sul sedile e controlla
solo di avere la macchina fotografica pronta perché,
d'ora in avanti e per i prossimi due giorni, a te e ad ogni
altra cosa penserà Mr. Divyam. Stai per tuffarti
nel cuore del Tango-hanto ed andare a scoprire un Giappone
così fuori rotta che, come ti dirà lui stesso,
quasi non lo conoscono nemmeno i giapponesi. E, quel che
è davvero curioso, lo farai a ritmo di jazz, cubana
e tango. Quello vero. Insieme al suo inseparabile iPod.
Mr. Divyam è un buon conversatore e durante il viaggio
non ti annoierai, tanto più che non hai la minima
idea di dove ti stia portando, quindi sai com'è.
Parla un inglese eccellente, è francese madrelingua,
il giapponese ovviamente (anche se gigioneggia un po' e
ti dice che non sa leggere il kanji) e puoi quasi scommetterci
che, anche se non te lo dirà mai, capisce bene anche
l'italiano.
Mr. Divyam vive a Kyoto e, ufficialmente, si guadagna da
vivere facendo traduzioni di manuali tecnici dal francese
all'inglese per conto delle società giapponesi.
Mr. Divyam vent'anni e più fa è venuto a trascorrere
un weekend in Giappone e ti dice che da allora è
ancora sabato. Ad uno che esordisce con una battuta così,
che vuoi rispondergli? Ormai sei suo, ti ha catturato.
Mr. Divyam mi ha spiegato che le donne in pigiama
di Leonardo, in effetti, non indossano il kimono, ma lo
yukata, che è di cotone e si chiama così
anche nella versione maschile, come quella che mi sono comprato
anche io (!). Lipperlì ho pensato di ragguagliare
Leonardo in merito, ma poi ho lasciato perdere per evitare
di trovarmi invischiato con lui in una difficilissima revisione
dei fatti.
Mr. Divyam si è fatto un nome nel Kansai, la provincia
di Kyoto, accompagnando i turisti in Tango-hanto a scoprire
un pezzo di Giappone che davvero pochi conoscono e che,
a quanto pare, è in assoluto una delle perle di questo
Paese ed una delle regioni più incontaminate. Come
base utilizza la sua casa a Kurumidani, luogo natìo
di sua moglie, un isolatissimo villaggio nel cuore del Tango-hanto
che conta - ho verificato personalmente - tredici case.
Kurumidani è a circa tre ore da Kyoto e ad una decina
di chilometri dalla civiltà più vicina, e
per arrivarci devi farti delle stradine nella foresta che
te le raccomando. D'inverno, ovviamente, quasi inaccessibile.
Un'oretta prima di arrivare a destinazione, Mr. Divyam si
ferma ad un supermercato e ti chiede se ti serve qualcosa
di assolutamente necessario per sopravvivere i prossimi
giorni, perché dove andiamo il supermercato te lo
sogni. Poi ti porta a pranzo in uno dei posticini che conosce
lui, in un altro villaggio di Tango-hanto del tutto sconosciuto
e chissadove, e lì inizi a capire che la tua dieta
dei prossimi giorni saranno cavoli tuoi se per caso hai
qualche difficoltà verso la vera cucina
giapponese.
E infine, a metà pomeriggio e molte molte molte curve
dopo attraverso una foresta così fitta che, ti assicuro,
considerata anche la temperatura, sembra più la giungla
malese, Mr. Divyam ti deposita qui:
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La nostra
casa in Tango-hanto, nel villaggio di Kurumidani
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Un nostro
vicino di casa
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"Papà, guarda, quella signora è uscita
in pigiama". Il bello del viaggiare con Leonardo
è quel suo modo assolutamente sereno, appena velato
da una sfumatura di stupore, con il quale classifica ogni
novità, per cui non puoi che catapultarti dal ridere
ad ogni sua osservazione improvvisa. Bisogna essere convincenti
per spiegargli che quel pigiama si chiama kimono,
almeno finché lui, mica tanto convinto e già
catturato altrove da chissacosa, ti risponde distratto "ah,
ho capito".
Non so perché Leonardo abbia messo a fuoco solo ora
le donne in abito tradizionale, dopo più di due settimane
in Giappone. Ogni sera, quando scarico le fotografie e le
trasferisco sul pc, mi aiuta a decidere quali usare per
il blog (sappiate che molte di quelle che vedete le ha scelte
lui): non solo, quindi, di donne in kimono ne ha viste ormai
a dozzine, ma ha pure avuto modo di vederle e rivederle
in fotografia molte volte. Tant'è, immagino sia significativo
che proprio qui a Kyoto, all'improvviso, le signore in pigiama
siano rimaste scolpite nel suo piccolo bagaglio giapponese.
Perché Kyoto sta tutta qui, nell'incedere di una
geisha per le vie di Gion.
Nonostante ciò, proprio la foto di una vera geisha
mancherà infine all'appello: le geishe non si lasciano
affatto fotografare, a meno che non le sorprendiate a tradimento.
Molti turisti lo fanno, io non ne sono capace: devo tutti
i miei ritratti alla disponibilità e collaborazione
delle persone che ho fotografato, e qui in Giappone non
si nega davvero quasi nessuno, basta un minimo di cortesia,
un sorriso, un arigato, e il gioco è fatto.
Ecco, vorrei passare questo messaggio a quella coppia di
italiani imbarazzanti e cafoni attrezzati con tre macchine
fotografiche e una telecamera. Vorrei dire loro che fotografare
e contemporaneamente riprendere con la telecamera due donne
che stanno pregando in un tempio, piazzando obiettivi e
flash a mezzo metro dal loro naso, senza nessun rispetto
del loro raccoglimento né avendo chiesto almeno il
permesso, e mitragliarle di scatti senza soluzione di continuità,
beh, non è solo un comportamento imbarazzante e cafone.
E' idiota.
Vorrei anche passare quest'altro messaggio a quella medesima
coppia di idioti. Vorrei render loro noto che mi ero già
accorto da mezz'ora del fatto che mi stessero seguendo e
che approfittassero di tutti i miei incontri, inchini e
convenevoli con le donne di Kyoto est per rubarmi gli scatti
alle spalle, infastidendo pure quelle stesse donne che gentilmente
stavano dando *a me* la loro disponibilità. E qui
mi fermo.
Poi: ci sono altre due o tre cose che vorrei dire a quell'altra
coppia di italiani che, all'ostello di Takayama, dopo aver
realizzato di non essere i soli turisti del Bel Paese presenti,
ci hanno palesemente ignorato per un paio di giorni socializzando
allo stesso tempo con tutto il resto della comunità
internazionale dell'ostello, perché fa molto figo
all'estero ignorarsi fra italiani e non salutarsi. Sì.
Finché non ci siamo incrociati in un corridoio e,
imbarazzati, ci hanno apostrofato con un "hi".
Siccome non ho voglia di scrivervele quelle due o tre cose,
ve ne chiedo invece una: siete cretini o lo fate soltanto
nei weekend?
Assegno di diritto alla coppia romana incrociata a Nara
il titolo "Carlo Verdone 2006", grazie alla fulminante
battuta del lui tatuato e occhialato a specchio, "Aò,
vabbè, stamosene un po' all'ombra sotto a 'sto Bbuddha,
vva'", pronunciata nel Daibutsu-den (sala) di Todai-ji,
il tempio più famoso del Giappone, nonché
edificio in legno più grande del mondo, risalente
nella versione attuale al periodo Edo, all'interno della
quale si trova per l'appunto la grande statua del Daibutsu
(il Grande Buddha), alta quasi sedici metri, risalente all'anno
746 e Patrimonio dell'Umanità censito dall'Unesco.
Infine, non ho voglia di scrivere alcunché su quell'altro
italiano a Gion, quello che in mezzo alla folla lungo Shijo-Dori
stava al cellulare con gli amici, anch'essi evidentemente
in vacanza con lui a Kyoto perché il succo della
conversazione, da cinque euro al minuto in roaming umts,
era: "aò, io sto qui all'angolo davanti alla
pedonale, voi 'ndo state?"
E non chiedetemi se io tenda a notare solo gli italiani
perché sono prevenuto e snob, o se è perché
sia inevitabilmente più facile accorgersi dei comportamenti
idioti da parte dei connazionali.
Andiamo invece oltre, anche
quest'anno, e facciamoci una passeggiata per le
vie dell'antica Kyoto, magari iniziando proprio dai vicoli
di Gion. Dove, non lasciatevi ingannare, gran parte delle
case tradizionali che vedete qua sotto sono splendide abitazioni
signorili, o caffè alla moda, o luoghi esclusivi
di incontro con le geishe, o ristorantini a molti zeri,
o gallerie d'arte...
O preferivate forse la nuova Kyoto di cristallo ed acciaio
che però, sappiatelo, per quanto avveniristica non
è certo confrontabile con Tokyo. Kyoto non è
alta, non è aggrovigliata, non è traboccante
di folla, non è esagerata, non è rumorosa, non
è vetrocemento. Eppure non potete fare a meno di sentirvi
in Giappone né più né meno di quanto
accada a Tokyo.
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La nuovissima
ed avveniristica Kyoto Central Station
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Kyoto Tower
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Io non so davvero bene che dirvi di Kyoto. Non ho nulla da
aggiungere a quello che si racconta di questa città,
né nulla da togliere.
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Ora, io devo assolutamente raccontarvi questa tipica scena
giapponese. Luogo: TIC di Kyoto (già
sapete dei TIC), dove ci rechiamo per riuscire a
prenotare un paio di alberghetti in località un po'
fuori rotta che i prossimi giorni vi dirò. Il TIC
di Kyoto si trova nell'avveniristica stazione centrale e,
per la precisione al settimo piano di un grande magazzino
tipo La Rinascente. Al TIC lavorano dei volontari che aiutano
gratuitamente i turisti come noi in faccenduole un pochetto
complesse, tipo telefonare ad una sperduta pensione giapponese
in una località manga per chiedere se c'è
posto. Se ci provate da soli, ad esempio, tramite una qualunque
normalissima agenzia turistica del centro, ecco... vabbè,
guardate, lasciamo perdere. Noi abbiamo voluto provarci:
quando dopo mezz'ora di tentativi di comunicazione, usando
anche il linguaggio dei muti e lo swahili, il tipo mi ha
aperto l'atlante e puntando il dito sulla carta del Giappone
mi ha detto, tutto felice e sudato, yes, we re in Kyoto,
here, beh, lascio il resto a voi. Ah, sì, la
nostra domanda iniziale era: "Can you book an hotel
in Tottori for us, please?", o giù di lì.
Nota: Tottori, ridente (?) località balneare del
Giappone, regione del Kansai, capoluogo di provincia, affacciata
sull'Oceano Pacifico.
Ma torniamo al TIC, e per la precisione alla nostra simpatica
volontaria. Che subito mi specifica che devo darle un po'
di monetine per fare le telefonate. Dall'apparecchio pubblico
del grande magazzino. Ma scusi, non può telefonare
dal telefono dell'ufficio e dirci poi (taccagna) quanto
le dobbiamo? No, bisogna farlo dal telefono pubblico, che
accetta solo monete da 10 e 100 yen, non quelle da 50, né
quelle da 500, e bisogna telefonare in piedi. Beh, ma almeno
non può cambiarcele lei le monetine, che sa, non
è che noi si vada in giro con i sacchi come Zio Paperone?
No eh. Beh, guardi, io tremila yen in monetine da 10 e 100
non segnate e non marchiate all'infrarosso non le ho. Ah,
ok, mi accompagna lei a cambiare ad una delle casse del
grande magazzino. Grazie.
Alla cassa del grande magazzino lavorano in sei. E dovete
tenere presente che siamo in un Paese dove ogni incrocio
stradale è governato da almeno sei vigili, tutti
armati e dotati di megafono per indirizzare la folla. Giuro.
I sei componenti del "team cassa" sono così
identificabili: tre "stagisti" in piedi appoggiati
al muro, immobili, tutti e tre dotati di badge d'ordinanza.
Due cassiere vere, badge pure loro. Un capobanda in gessato,
con lo sguardo serissimo. Il suo badge mi sembra di latta,
non di carta.
La mia volontaria chiede ad una cassiera di cambiare la
mia banconota da mille yen. La cassiera interpellata si
rivolge alla cassiera al suo fianco, che a sua volta interpella
un po' intimidita ed imbarazzata il capobanda. Il capobanda
è molto serio, ascolta attentamente, annuisce, dà
un paio di ordini secchi, tutti si inchinano, si avvicina
alla cassa seguito dalle due cassiere, apre la cassa, blatera
seccamente qualcosa, una delle due cassiere prende una calcolatrice
gigante, tutti calcolano qualcosa e si passano le monetine,
il capobanda alla cassiera, la cassiera all'altra cassiera,
quest'ultima le mette su un piattino e le passa finalmente
a me, inchinandosi: nove monetine da cento yen e dieci monetine
da dieci yen. Io mi inchino, tutti si inchinano verso tutti
e, colpo di scena finale, anche gli stagisti si inchinano
verso di me e mi ringraziano. Loro a me.
Tutto il resto di Kyoto arriva probabilmente domani. Stay
tuned. |
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Non potete capire da dove sto bloggando. Dopo le ger mongole
in mezzo al Gobi, le yurte dei pastori kirghizi di Tash
Rabat, il bungalow kanako di Lifou e le case tibetane di
Tashi Dzong, eccoci in un altro luogo davvero fuori dal
mondo: questa notte alloggiamo in un'autentica fattoria
Gassho-Zukuri, nello sperduto villaggio di Ainokura, distretto
di Gokayama, Alpi dello Honshu Centrale, un posticino per
raggiungere il quale ci siamo dovuti arrabattare un po'
con un paio di linee secondarie di autobus e macinare a
piedi le ultime centinaia di metri di strada sotto il diluvio
universale. Ma a tutto questo arrivo dopo.
Ora sto invece per farvi una confessione: anche noi, come
i peggiori italiani all'estero da stereotipo, in qualunque
posto si vada al mondo dobbiamo provare almeno una pizza
locale. E non fate quella faccia, chissà che fate
voi. Fate conto che la nostra sia un'indagine demoscopica
e d'altra parte solo così abbiamo potuto apprezzare
la famosa pizza di Noumea in Nuova Caledonia (pizza?),
e scoprire che in Argentina fanno la miglior pizza del mondo
dopo quella italiana, e provare la psichedelica pizza al
montone di Ulaan Baatar in Mongolia.
Adesso vi dico un'altra cosa. Su questo pianeta il concetto
di pizza viene interpretato nei modi più inquietanti,
ma di una cosa potete essere certi: qualunque pizza al mondo
è fatta da una cosa che sta sotto, che più
o meno potete chiamare pane, e da varie cose che stanno
sopra, e quando dico varie cose, intendo esattamente
tutto quello che la vostra immaginazione vi suggerisce.
Questo, perlomeno, è uno dei cinque pilastri fondamentali
del viaggiatore.
Poi arrivate in Giappone, per la precisione a Takayama,
ridente località montana assai rinomata turisticamente,
circa sessantamila abitanti (qui la chiamano "un paesino
di montagna"...). E questa è una pizza margherita,
secondo loro:
Qualora la foto non fosse sufficientemente esplicativa prendetevela
con la Nokia ed annotate: zuppa di pomodori lessati e formaggio
fuso, leggermente gratinata in superficie. No, non abbiamo
la foto della nostra faccia quando ce l'hanno portata. Ecco
comunque la prova definitiva che in Giappone non si mangia
solo sushi. Anzi, per dirvela tutta, noi siamo qui da dieci
giorni ed io devo ancora vederlo il sushi.
Fra parentesi, ho fotografato qualche altro (vero) piatto
locale. Direi che non ci possiamo lamentare, vi pare? Gli
ingredienti sono quasi tutti noti, e quello che non è
noto pazienza. Notare la carne fatta cuocere in tavola su
una foglia di chissaché.
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Questi giorni
sulla nostra tavola
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Altra curiosità. Qui siamo nell'anno 18. No, non 2018.
Proprio diciotto, dell'epoca di non-ricordo-più-che
e mi perdonino quelli che il vero viaggiatore dovrebbe imparare
tutto della cultura locale e delle dinastie degli imperatori
giapponesi: non lo so, lo avevo letto, ma ora non lo ricordo
più e pazienza. Comunque, caso mai doveste pensare
che ve la stia romanzando troppo, ecco qui la prova che non
vi racconto storie, su un biglietto ferroviario:
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14 Agosto
dell'anno 18...
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Poi: l'amico Monte Fuji si è
fatto ben vedere all'alba del giorno della nostra partenza
e così sono riuscito a scattarvene un'altra. Se siete
abbastanza osservatori e vi state chiedendo cosa siano quelle
che sembrano costruzioni sul fianco della montagna, un po'
sulla sinistra, ebbene sì: sono tutti rifugi, negozi,
posti tappa, ecc, disseminati lungo la Kawaguchiko Route,
i cui tornanti si distinguono peraltro benissimo fino in vetta
nella foto a grandezza originale. Capite adesso cosa intendevo
quando dicevo che potete vedere la via di salita a chilometri
di distanza?
Lasciato il Fuji, ci siamo avventurati nel Nagano Ken, ossia
la provincia di Nagano, nelle Alpi giapponesi, nota per le
stazioni sciistiche e per avere ospitato pochi anni fa le
olimpiadi invernali (o erano i mondiali di sci?). Per raggiungere
la nostra destinazione, Takayama, località turistica
fra le montagne segnalata dall'Unesco e rinomata per le antiche
case giapponesi, da Kawaguchiko abbiamo seguito una rotta
un po' inconsueta, passando per Matsumoto e sparandoci cinque
ore di viaggio suddivise fra un paio di treni ed un autobus,
che fortunatamente Leonardo si è dormito per intero.
La rapidissima sosta a Matsumoto ci ha consentito di fare
- letteralmente - una corsa fino al celebre Matsumoto-jo,
che pare sia uno dei quattro castelli più belli di
tutto il Giappone. Dodici minuti cronometrati per percorrere
circa un chilometro dal terminal degli autobus al castello,
che se siete in due più un passeggino con un bambino
di due anni e mezzo dovete moltiplicare per quattro: prima
va il papà, mentre la mamma si ferma in stazione a
giocare con Leonardo, poi cambio staffetta. Se ci sono trentacinque
gradi all'ombra e vi trascinate dietro uno zaino con qualche
chilo di apparecchiatura fotografica, un paio di bottiglie
di tè freddo ed una delle Lonely Planet più
voluminose in circolazione, è anche una buona occasione
per la vostra linea. Se fra il treno e l'autobus avete un'ora
l'impresa è alla vostra portata, se avete solo cinquanta
minuti pensateci bene perché gli autobus per Takayama
non sono frequentissimi.
Infine, se siete dei pivelli, fate come tutti ed andate direttamente
da Tokyo a Takayama in tre ore, prendendo l'ultraveloce shinkansen
e cambiando poi treno a Nagoya, e pazienza per Matsumoto.
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Matsumoto-jo
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Alpi giapponesi,
Nagano Ken, nei dintorni di Kamicochi
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Luogo comune confermato: i giapponesi sono tanti, ma davvero
tanti, proprio proprio tanti. Da Kawaguchiko a Matsumoto il
territorio è praticamente urbanizzato senza soluzione
di continuità, e sto parlando di decine di chilometri
di valli e piccole pianure fra montagne di duemila metri.
Da quello che ho capito, praticamemte quasi l'intero Giappone
è così: i fondovalli e le pianure sono popolati
a tappeto.
Scavalcando le Alpi verso Takayama si ha la possibilità
di vedere quella che pare essere una delle poche regioni ancora
(quasi) incontaminate, se escludiamo qualche diga, qualche
stazione da sci, qualche megaviadotto, qualche superstrada,
qualche elettrodotto, qualche torrente ingabbiato nel cemento,
opera ingegneristica, quest'ultima, che sembra appassionare
molto i giapponesi: il 95% dell'intera rete fluviale giapponese
è forzata fra argini artificiali in cemento, addirittura
fino quasi a tremila metri di quota.
A Takayama alloggiamo in un ostello, e fin qui vabbè,
nulla di strano. E' l'unico posto dove abbiamo trovato un
buco per dormire, perché anche i giapponesi - luogo
comune sfatato - durante la settimana di ferragosto hanno
la pessima abitudine di andare in ferie e quando si muovono,
loro, sono centoventisettemilioni: capite dunque che razza
di casino possa essere trovare un letto libero senza aver
prenotato con almeno tre anni di anticipo.
La particolarità principale di questo luogo, comunque,
è che si trova all'interno di un tempio buddista. Come
potete forse supporre, l'esperienza in sé è
piuttosto zen, anche perché il posto non si può
dire che non sia incantevole. Ma.
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Il nostro
ostello nel tempio di Takayama
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Ma: se avessi letto prima la Lonely Planet. Ché, a
dispetto dei suoi detrattori snob e a saperla usare, per certe
cose continua ad essere un must. Dal paragrafo "Pernottamento
a Takayama", cito: "Hida Takayama Tensho-Ji Youth
Hostel. E' sistemato in un grazioso tempio. Alcuni lettori
ci hanno segnalato di aver avuto alcuni problemi a
causa degli orari che occorre osservare".
Problemi, suvvia... In fondo ti chiedono solo di svegliarti
alle sei e mezza del mattino e se non lo fai ci pensano loro,
con un bel megafono. In fondo ti chiedono solo di sloggiare
alle nove e trenta, e guai a farti rivedere prima delle tre
del pomeriggio. In fondo ti chiedono solo di rientrare prima
delle 21:45, altrimenti te ne rimani fuori, e di spegnere
le luci alle dieci di sera. Insomma, quisquilie. Li odio.
Ora, va detto che io ho sempre odiato gli ostelli della gioventù,
anche quando li frequentavo vent'anni fa perché non
potevo permettermi un albergo e non è che trovassi
sempre un campeggio pronto ad aspettarmi in ogni città
che visitavo. E' che - altra confessione, oggi è la
giornata - io ho sempre odiato sia condividere il cesso e
la doccia, sia il tipico clima da ostello, per cui siamo tutti
giovani yeah, tutti molto viaggiatori, tutti molto hippy,
tutti molto backpackers, ed io sono italiano, e tu sei giapponese,
e tu sei americano, e tu sei israeliano, e noi in Italia si
fa così, e noi invece in America si fa così,
e voi come fate in Giappone, e invece voi in Israele, e siamo
tutti molto giovani e liberi, e parliamo tutti inglese, e
ci vogliamo tutti bene, e dormiamo tutti assieme, e socializziamo,
e bla bla bla bla. Ecco, l'ho detto. E sì, sono vecchio.
Adesso che di anni ne ho quaranta suonati da un bel po', capirete
che no, non ce ne ho proprio più per l'esperienza dell'ostello,
soprattutto se al mattino mi svegliano e mi buttano fuori
a calci, e se devo rientrare entro una certa ora.
A dire la verità noi abbiamo una camera privata, o
meglio: abbiamo un rettangolo di due metri e mezzo per quattro,
quattro pareti di compensato sottile, finestre di carta come
usa in Giappone, una porta di legno scorrevole, un tatami
(che per i non addetti è un pavimento di paglia intrecciata,
tipico delle case giapponesi, dove si vive per terra), tre
materassi alti cinque centimetri, tre piumoni e un ventilatore.
Temperatura in camera prossima ai trentacinque gradi. E Leonardo
che continua sempre più a chiedersi in quale razza
di avventura l'abbiano trascinato i suoi genitori. Lui sì,
è un po' stralunato!
Per onestà devo dirvi che i bagni sono tirati a lucido
e, naturalmente, i water sono ultratecnologici, addirittura
con qualche pulsante in più rispetto a quelli di cui
vi ho raccontato qui.
Devo dirvi anche che pure qui abbiamo Internet gratuito a
banda larga e che tutti sono gentilissimi, a parte quella
vecchia str***a che rompe i c******i a tutti al mattino e
che per farmi uscire dalla doccia mi chiude l'acqua calda
a tradimento mentre sono completamente insaponato, ché
secondo lei alle otto e trenta dovrei essere già fuori
dalle balle. Maledetta megera giapponese, che un ramo di ciliegio
si secchi e le foglie cadendo ti sporchino tutto l'uscio di
casa (tipico insulto giapponese, pesantissimo).
Insomma, l'esperienza nel tempio è zen e mistica, ci
svegliano come in caserma, ma profumando l'aria di incenso
e diffondendo musica di piffero giapponese. Giuro. Naturalmente
si gira a piedi nudi e le scarpe si lasciano fuori all'ingresso,
ma a parte che qua funziona così praticamente dappertutto,
a partire dai ristoranti, a me questa cosa del camminare scalzo
è sempre piaciuta e lo faccio anche a casa, quindi
ben venga. E' dormire (soprattutto) e mangiare per terra che
è micidiale per il mio mal di schiena.
Posso un attimo? Ma perché diavolo non si comprano
delle belle sedie ed un tavolo, un letto come dio comanda,
perché non usano la forchetta ed il coltello, perché
devono per forza ciupparsi le loro zuppette facendo tutti
quei rumori orrendi come i cinesi? Ecco, scusate, grazie.
Adesso torno politically correct e molto interculturalfigo,
anche perché io in Giappone ci sto benissimo, altro
che Cina.
Resta il fatto che Leonardo trova sempre più strano
dover andare in giro scalzo, dormire per terra, mangiare con
i bastoncini e vedere donne che girano con l'ombrello aperto
con il sole a palla: - Papà, hanno l'ombrello, ma
non piove! - Sì Leonardo, sono tutti un po'
fulminati qui in Giappone, non ci far caso, poi torniamo a
casa, ti sveglierai e tutto tornerà normale.
Andiamo dunque a farci un giro per le vie di Takayama, un
po' rintronati dal sonno, insaponati e con il mal di schiena.
E magari cerchiamoci anche un caffè, va', che la colazione
giapponese del tempio se la possono anche tenere, quella sì.
Bella Takayama, ci passiamo tre notti (sob) e un paio di piacevoli
giornate. Caldo torrido, il peggiore da quando siamo in Giappone.
Fradici tutto il giorno, tipo Cambogia durante il periodo
monsonico, e se non sapete com'è chiudetevi in bagno,
mandate il riscaldamento a palla per un'ora e mettetevi vestiti
sotto la doccia con il getto bollente. Ma non dovremmo essere
in montagna, qui?
Di certo in montagna è Shirakawa-go, distretto di Hida,
un'ottantina di chilometri a nord per un paio d'ore di autobus,
anche se poi scopriamo che qui chiamano montagna tutto
quello che sta sopra i duecento metri di quota. E infatti
questo villaggio, altro sito considerato World Heritage
dall'Unesco, si trova a cinquecento metri di altitudine, ma
quando qui nevica - regolarmente da ottobre ad aprile - sono
metri e metri, e la valle rimane isolata.
Shirakawa-go è famosa per le fattorie dal tetto in
paglia a doppio spiovente, uno stile unico al mondo detto
Gassho-Zukuri. A dire il vero, lo stile Gassho-Zukuri
caratterizza l'intera valle di Shokawa, dove appunto si trova
Shirakawa-go, che è solo la località più
facilmente accessibile.
Shirakawa-go è anche il nostro trampolino di lancio
per andarci ad infognare ancor più in mezzo a queste
valli che fino a pochi anni fa erano davvero difficilmente
accessibili. Ed è così che di autobus in autobus
ci infiliamo nel distretto di Gokayama, dove arriviamo sotto
una pioggia torrenziale attraversando orridi e canyon completamente
ricoperti di boschi a perdita d'occhio, e costeggiando decine
di laghi artificiali che, per lunghi tratti di strada, sono
l'unica traccia di civiltà in un territorio ancora
completamente vergine.
Sì, vergine. A parte qualche diga qua e là,
naturalmente. A parte qualche centrale elettrica. A parte
qualche viadotto. A parte qualche torrente incanalato. Eccetera.
Io ve la racconto così, ed è vera, ma è
vero anche che queste valli sono stupende. Ecco, ci sarebbe
qualcosa da dire, magari, sul clima, considerato che sono
quasi sempre immerse nella nebbia, che quando piove (il che
a quanto pare accade piuttosto spesso) vien giù il
diluvio universale, che anche con il diluvio ci sono più
di trenta gradi, e che d'inverno non vengono mai meno di sei
o sette metri di neve.
Sta di fatto che il nostro ultimo autobus, sul quale viaggiamo
praticamente da soli, ci scarica lungo la statale ad una fermata
in mezzo al nulla, sotto una pioggia torrenziale, noi ed il
nostro quintale di bagagli, più passeggino, più
Leonardo. Ora, poiché quassù parlano solo ed
esclusivamente dialetto dell'Honshu e vedere un bianco è
ancora un discreto evento, lipperlì ci viene il dubbio
di essere stati vittima di un simpatico scherzo del Sol Levante,
o di non esserci mica tanto capiti con il nostro amico autista,
il che di per sé potrebbe anche essere un problema,
sia perché di qua non passa praticamente nessuno tranne
quattro autobus al giorno, sia perché è l'una
del pomeriggio e l'autobus successivo, l'ultimo della giornata,
è previsto attorno alle cinque.
Così ci incamminiamo poco fiduciosi, sotto la pioggia,
nella direzione che ci è stata indicata e, miracolo,
dopo solo qualche centinaio di metri, dietro una curva ci
appare Ainokura, la nostra agognata ed isolatissima meta.
Praticamente, il villaggio dei Puffi. Vedere per credere.
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Ainokura,
distetto di Gokayama
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Poche decine di case, molte in stile Gassho, qualche campo
di riso, boschi (ed elettrodotti) a perdita d'occhio, e null'altro.
Ah, sì: acqua a scrosci. Qui siamo ospiti in una vera
e propria fattoria Gassho e quella che vedete qua sotto è
la nostra cena di stasera in compagnia di un'altra famiglia
giapponese e dei padroni di casa. Niente male, eh? Vi avevo
ben detto che vi avrei portato a vedere un po' di Giappone
fuori rotta.
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Cena nella
nostra fattoria Gassho di Ainokura
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Insomma, Leonardo ha fatto amicizia con la bimba giapponese
e tutti insieme trascorriamo la serata (serata? Qui si cena
alle sei e trenta del pomeriggio...) a piegare origami ascoltando
musica folk della valle di Gokayama. Che altro potremmo volere
di più dalla nostra avventura giapponese?
Ecco, sì: trovare il modo di andarcene da qui domani
mattina, visto che in serata dovremmo essere a Kyoto e che
sono almeno trecento chilometri da qui.
Dimenticavo: abbiamo rinunciato ad un'occasione forse irripetibile.
I nostri amici giapponesi ci avevano invitato a trascorrere
il pomeriggio con loro ad un Onsen (tipico bagno termale
giapponese il cui drammatico e complicatissimo rituale si
presta ad una collezione di mostruose gaffes fantozziane)
nelle vicinanze. Avevamo accettato, ma poi, vittime della
stanchezza, abbiamo lasciato perdere. Su, non fate così,
avete ragione. Ma abbiate pietà: già arrivare
fin qui senza finire sperduti nella giungla giapponese ha
richiesto un discreto impegno. Per l'onsen vedremo nel caso
più avanti che si può fare.
E adesso vediamo se l'umts quassù funziona davvero.
Altrimenti ve lo metto in linea domani sul treno per Kyoto.
Se riusciamo a prenderlo.
Sayonara!
Aggiornamento: il segnale c'era,
ma troppo debole. Postato il mattino seguente dal treno Takaoka-Kyoto,
dove naturalmente il segnale è perfetto per tutti i
trecento chilometri della linea... |
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Sono certo che sul menù non c'era scritta la stessa
cosa, ma nulla da fare: palline di gelato alla vaniglia,
ancora. Però almeno questa volta ci siamo tolti le
scarpe e non abbiamo cercato di fregare le pantofole ai
camerieri. E poi non è proprio vero, dài,
sto un po' romanzando: prima mi è arrivata un'interessante
ciotola di pelle di maiale tagliata a striscioline. Pare
sia un gustosissimo antipasto da innaffiare con birra giapponese.
Emanuela è stata più pragmatica: si è
alzata, si è avvicinata al tavolo (tavolo?)
a fianco al nostro, ha curiosato un po' nei piatti di una
coppia allibita di giapponesi e ha indicato alla cameriera
la ciotola più familiare. Io mi sarei anche catapultato
dal ridere, ma stando seduti per terra c'è ben poco
di che catapultarsi. E a pensarci, ma che ci trova questa
gente nel mangiare, dormire e vivere per terra? Mah. A me
viene solo un gran mal di schiena.
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Leoanardo,
supper in Japan
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Comunque. Che debbo dirvi? Abbiamo lasciato Tokyo e siamo
dunque a zonzo per il Giappone, ma io rimango monotematico.
Sì, per carità, scatto anche in giro qua e là:
panorami, per dire, tempietti e casette, particolari a caso,
e qualcosina tutto sommato vi ho anche fatto vedere e ancora
lo farò.
Come ad esempio l'ingresso al tempio di Jochi-Ji, che si trova
sulla strada fra Kita-Kamakura e Kamakura, circa cinquanta
chilometri a sud di Tokyo, itinerario da percorrersi assolutamente
a piedi, di tempio in tempio, fino all'oceano, magari fermandovi
per pranzo lungo la strada in qualche locanda tradizionale,
dove - per quanto abbiate studiato - avrete anche il piacere
di infilare una sequenza di gaffe da primato. Tipo:
e io che ne sapevo che il cucchiaione di legno serve per aiutarsi
a tirar su dalla zuppa i noodle con i bastoncini (fuori:
quaranta all'ombra; dentro: zuppona bollente di verdure...)?
Ovviamente io l'ho usato come un banalissimo cucchiaio e,
in effetti, mi chiedevo perché avesse le dimensioni
di un mestolo. Figura orrenda, come al solito.
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No, io non ve la racconto Tokyo. Provo a farvela vedere.
E mi spiace solo di non avervi potuto far vedere in passato,
allo stesso modo e tanto per rimanere in oriente, Bangkok
e Saigon, Kuala Lumpur e Pechino, Hong Kong e Delhi, così
poi mi potevate dire. Perché a Tokyo c'è tutto
questo, e anche di più. Solo che qui sorridono, a
Pechino no. Solo che qui il traffico si muove, a Bangkok
no. Solo che qui si respira, a Delhi no.
Ecco, per dirvi la verità non credo che Tokyo, comunque,
scalzerà Bangkok dalla testa della mia classifica
personale. Perché forse, ma solo forse e forse
solo per ora e a caldo, a Tokyo manca un'unica piccola cosa.
O meglio, c'è una cosa di troppo: che riesce
a farti a sentire a casa, come mai Bangkok riuscirà
a fare nemmeno se dovessi viverci per anni. Per uno zingaro
come me, forse questo è il solo ed unico elemento
di disturbo. Resta il fatto che amo già questa
città.
Sì, oggi sono un po' didascalico, è vero.
Ma venite ancora un po' in giro con noi per Tokyo, che tanto
è già manga di per sé...
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Io già lo sapevo che ci avrei sguazzato a bloggare
dal Giappone. Devo solo ancora decidere a che linea attenermi:
tipo, ve la faccio didascalica, o la volete un po' manga?
Il fatto, qui, è che potete anche aver fatto indigestione
di oriente per anni, come noi, e magari credere che nulla
dei gialli possa più sorprendervi. Ma poi atterrate
a Tokyo...
Facciamo così: subito sotto con i luoghi comuni.
Uno: se proprio non siete alla frutta, non chiedete alcuna
informazione ad alcun giapponese vi capiti a tiro. A meno
che, naturalmente, non desideriate intensamente paralizzare
mezza Tokyo e gettare un discreto numero di amici del Sol
Levante nel panico totale.
Al TIC di Ginza, che altro non è se non il più
efficiente ed attendibile centro informazioni per turisti
di tutta Tokyo, ho chiesto alla gentile impiegata qualche
dettaglio sul collegamento fra Matsumoto e Takayama, due
fra le più gettonate mete della regione. Erano le
dieci e mezza del mattino. Siamo usciti dal TIC alle due
del pomeriggio. Ho visto questa povera donna attaccarsi
perfino a Google e coinvolgere altre due sue disperate colleghe.
Ho visto questo efficientissimo team ripresentarsi da me
dopo un'ora per dirmi che sì, effettivamente esiste
un collegamento fra Matsumoto e Takayama.
Bene. Grazie. Questo già lo sapevo. Quante volte
al giorno? Quanto tempo impiega? Con che mezzo?
Lungo che itinerario? Ops... Panico! Sorrisi, tanti.
Un minuto solo Paschetto san, controlliamo subito.
E giù di nuovo su Google. Eccetera.
Naturalmente non ho scoperto nulla di più, finché
a Google non mi ci sono attaccato io e ho risolto
la faccenda
in pochi minuti.
Due: in Giappone (o meglio, a Tokyo, per ora...) si mangia
benissimo, i ristoranti costano poco e anche se odiate il
pesce vivete comunque alla grande. Va da sé che qualunque
cosa ordiniate, pur aiutandovi con le figurine e le fotografie
sui menù, quello che vi verrà servito *non*
assomiglierà affatto a ciò che vi attendevate.
Pazienza. Tacete, mangiate e la prossima volta imparate
il giapponese. E, soprattutto, non state a far tante domande
su cos'è quello e quell'altro... Come dite? Ah, certo,
voi sapete tutto perché frequentate i sushi bar del
centro di Milano. Ecco, sì, sì. Bravi...
Date un'occhiata a questa:
Bene, di fronte a questo menù di un elegantissimo ristorante
di Ueno, Tokyo centro, io ho chiuso gli occhi e puntato un
dito. Come dite? Vi ho già detto: lasciate perdere,
*non* chiedete spiegazioni, né informazioni, a meno
che naturalmente non vogliate paralizzare l'intero ristorante.
Insomma: ho puntato il dito sulla seconda colonna, quella
dove c'è quel simbolo che mi piace tanto, tipo divieto
di sosta. Mi hanno portato, ridendo moltissimo, una eccezionale
specialità giapponese.
Due palline di gelato alla vaniglia.
Per onestà di cronaca va anche detto che in quel ristorante
non ne abbiamo azzeccata una. E sì che abbiamo studiato,
e sì che di oriente, noi, ne abbiamo davvero divorato
a iosa, e sì che bla bla bla. Ma siamo stati traditi
dalle serate precedenti, filate vie troppo facili. Comunque:
ci siamo accomodati al tavolo (tavolo?) con le scarpe
e siamo stati subito cazziati. Ok, ce le siamo tolte immediatamente,
scusandoci e vergognandoci a dovere e, poiché sembravano
lì apposta per noi, ci siamo infilati delle comode
pantofole. Erano quelle dei camerieri.
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