Il 16 ottobre 2003, alle 13.15, uscivo dall'ufficio per
andare a pranzo. Il solito panino, nel solito squallido
bar di via Murat. Ci vado ogni volta che sono in sede, e
ci vado da solo. Stacco per un'ora. Evito il self service
dove vanno i colleghi, evito i ristoranti e le pizzerie
convenzionate dove - probabilmente - mangerei meglio e potrei
utilizzare i ticket aziendali. Evito il mondo che mi circonda,
in effetti.
Ho sempre fatto così, a ben pensarci. Io pranzo da
solo quasi di regola. Leggo il giornale, mi estraneo da
tutto, mi "allontano". Spesso inserisco anche
il silenziatore al telefonino. E' un mondo che, almeno per
un'ora, non mi appartiene più. So che da qualche
altra parte di Milano Emanuela fa talvolta come me, quando
può. Lei però non legge il giornale, credo
sia una prerogativa maschile.
Via Murat è una strada davvero grigia. Quasi quasi
un giorno la fotografo e ve la faccio vedere su questo sito
web. Se pensate che Milano sia grigia, niente al mondo vi
farà cambiare idea se passate da via Murat. Ci sono
giorni in cui sedersi in un bar di via Murat per mangiarsi
un panino e leggere il giornale può davvero essere
deprimente. Certo, è una depressione un po' snob.
Ma la capacità depressiva insita in ciascuno di noi
si misura con il proprio sistema di riferimento quotidiano.
E il mio ruota attorno a via Murat.
Il 16 ottobre 2003 era una giornata come a Milano se ne
vedono moltissime, soprattutto ad ottobre. Velata, ma non
troppo, grigia, ma non troppo, forse c'è il sole,
forse no, forse è nebbia in sospensione, forse è
foschia, forse è smog, forse c'è un raggio
di sole, ma non è detto. Se in una giornata così
esci da Milano per qualche chilometro, ti ritrovi in una
Pianura Padana velata ma non troppo, grigia ma non troppo,
forse c'è il sole, forse no, ecc... Solo che, a differenza
di Milano, la Pianura Padana ti mette addosso anche malinconia.
Che può essere più sottile della depressione
snob davanti ad un panino al salame e fontina nel baretto
di via Murat.
*****
Io lo so bene. Il 16 ottobre 2002, alle 13:15, un treno
mi depositava in Stazione Centrale a Milano, dopo avere
attraversato una Pianura Padana esattamente come quella
che ho descritto, in una Milano con lo stesso, identico
cielo e gli stessi, identici, non-colori della Milano di
365 giorni dopo. Solo che, il 16 ottobre 2002, sul binario
12 della Stazione Centrale, terminava la nostra lunga avventura
di Asia
Overland 2002.
Scrivevo, quella sera a casa, sull'ultima pagina del mio
diario di viaggio (che leggerete fra qualche mese - sto
ancora trascrivendo il Tibet per il momento...): "Mi
guardo in giro. Milano è grigia. E' così che
si scrive la parola fine di questa storia? Non ci avevo
mai pensato, questi mesi, me ne accorgo solo ora. Cosa si
scrive alla fine di sei mesi di viaggio?"
Così finisce il diario che (forse) qualcuno di voi
ha iniziato a leggere fra le pagine di Asia Overland 2002
in questo sito web. Se vi ho rovinato il finale, in questo
caso, mi scuso fin d'ora.
Adesso sono passati dodici mesi da quel giorno e tempo per
rispondermi ne ho avuto a sufficienza. Qualche risposta
mediocre l'ho trovata, altre sono destinate ad una continua
revisione, come quando si scrive un editoriale come questo,
che inevitabilmente non porterà da nessuna parte.
Ho l'impressione di avere lasciato moltissime cose su quel
treno, che spesso mi mancano, mi metto a cercare affannosamente
nella speranza di ritrovare, cerco di afferrare la notte
prima di addormentarmi. Come sono già lontane tutte
quelle cose, e alle spalle.
Secondo una visione india dello scorrere del tempo, il futuro
ci arriva alle spalle, non lo conosciamo e non lo vediamo
arrivare, mentre il passato si allontana davanti a noi e
possiamo guardarlo in faccia. E' straordinaria, vero? Pensateci:
è esattamente il contrario di come interpretiamo
noi il tempo, con il futuro davanti a noi che si avvicina
e il passato alle spalle che si allontana. Eppure, è
una percezione molto più vera della nostra. A me,
per lo meno, è molto chiara.
Io, oggi, vedo molto distintamente il mio passato recente
allontanarsi rapidamente, e quello remoto diventare sempre
più sfocato. Cerco di afferrarlo, anche trascrivendo
le pagine del mio diario di viaggio su questo sito web.
Ma so già che è solo un palliativo.
Del futuro so ben poco. So che ho davanti grandi novità
e nuove avventure, ed anche molti pranzi a base di panini
nello squallido bar di via Murat.
Non so cosa risponderò a Zuz se mai mi chiederà
la risposta alla domanda in sospeso. So che, se lo vorrà,
gli farò leggere i miei diari, e magari anche quelli
della Patagonia di oltre dieci anni fa, e cercherò
di trasmettergli quello che mai nessuna pagina di diario
potrebbe trasmettere, quelle motivazioni, quell'immaginazione
e curiosità che, di quei diari, sono l'inevitabile
e necessaria premessa.
Soprattutto, gli auguro di avere la capacità di sognare
sempre oltre, sempre un po' più in là, sempre
un po' più in alto dell'ultimo traguardo raggiunto.
Di addormentarsi ogni sera con mille domande come la mia
a cui cercare una risposta, e di non arrendersi fino a che
quelle risposte non siano arrivate e non abbiano, a loro
volta, fatto nascere nuove domande.
Io credo che esista un solo modo per riuscire a convincersi
che quel panino in via Murat sia davvero buono. Considerarlo
l'intervallo fra un sogno realizzato, che si allontana davanti,
ed uno futuro, che sta per piombarti alle spalle.
A guardare bene, da via Murat alla Stazione Centrale ci
sono solo dieci minuti con l'83, anche in ora di punta.
P.S. Chi è Zuz? Ne parliamo un'altra volta, è
un buon tema, parlando di viaggi... |