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Sono capitato qua.
C'entra qualcosa con il fatto che, per quanto mi riguarda,
non mi sono mai ripreso del tutto (né credo mai mi
riprenderò, almeno fino al prossimo overland) dal
nostro 2002.
Rimango sempre affascinato da coloro che hanno anticipato
esperienze che negli anni ho fatto mie e provo sempre un
po' di sana invidia per chi ha avuto la possibilità
di vedere un tempo che a me potrà solo essere raccontato.
Anche io, del resto, ho visto una Patagonia
che non era già più quella di Chatwin, ma
che ancor più non è quella di oggi, ed è
stato così anche alle Svalbard.
Il fenomeno di urbanizzazione, copertura telematica ed omologazione
di ogni angolo del pianeta, che voi chiamate globalizzazione,
ma che a me riempie la bocca solo a dirlo, corre con accelerazione
esponenziale, per cui la differenza fra ieri e oggi è
sempre minore di quella fra oggi e domani. Sto divagando.
Chi ha apprezzato, o sta apprezzando, i nostri diari
di Asia Overland ancor più si perderà
fra gli appunti e le fotografie di Steven
Abrams. Bisogna amarla davvero questa dimensione
del viaggio, interiorizzarla, farla propria, per comprenderla
e saperla apprezzare. Se non ti piace la montagna è
inutile che stia qui a spiegarti la dolcezza e la profondità
del suono di un rampone che morde la neve dura in quota:
stiamo parlando due lingue diverse. E' anche inutile che
tu mi spieghi la poesia di una rovesciata acrobatica davanti
a una porta: io allo stadio non vado.
Così, se non ti piace davvero il Viaggio, se non
lo hai nel sangue, anche Steven non ti dirà nulla.
A me dice molte cose, moltissime. E mi ritrovo. Senza conoscerlo,
già gli sono amico.
Perdonami, ancora una volta sto divagando, proprio come
in un grande overland. Quello che invece voglio dire è
che la storia di Steven mi riporta ad un paio di temi sui
quali mi ero già soffermato in passato.
Uno. La misura di quanto cambi davvero il mondo attorno
a noi è anche nelle rotte che vi tracciamo attraverso.
Proprio prima di partire, il mio caro amico Sergio,
che su questi percorsi ha costruito una vita, mi fece notare
che la distanza fra il mondo nel quale era cresciuto lui
e quello che ci accingevamo ad attraversare noi è
equiparabile alla distanza fra le latitudini dei nostri
differenti itinerari. Nel nostro mondo io oggi passo di
sopra. Nel suo, lui era passato di sotto. Lui non poteva
passare di sopra, noi non siamo potuti passare di sotto.
In trent'anni il mondo intero è stato rovesciato.
Antefatto: all'inizio degli anni '70, Sergio, che allora
aveva circa la mia età oggi, piantò di punto
in bianco la sua poltrona di dirigente di una grande multinazionale,
attrezzò la sua R4 e partì per l'oriente lungo
la hippy trail. Un anno di viaggio. Sergio ha vissuto due
vite, separate da quello che lui chiama "anno zero",
un intervallo che ha scavato un solco infinito fra le sue
esistenze. Non ha caso, dichiara di avere 44 anni. Credo
ne abbia 73.
Nella sua rotta verso est passò "da sotto":
Iran, Afghanistan, Pakistan, la hippy trail, battuta all'epoca
da legioni di europei e americani in viaggio verso il nirvana.
Sergio è poi tornato più volte in Afghanistan
e ha scritto anche un libro su quello straordinario Paese.
Anche avesse voluto, non sarebbe potuto passare da "sopra":
c'era il filo spinato, il Muro di Berlino e una Cina che
chiudeva le porte perfino alla Russia. Quasi non esisteva
la carta geografica del sopra.
Trent'anni dopo, di sopra siamo passati noi: Iran, Turkmenistan,
Uzbekistan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Cina. Anche volendo
(e ci abbiamo provato, accidenti), passare di sotto sarebbe
stato davvero un casino.
Sono trascorsi trent'anni e il mondo è stato ribaltato.
Anche Steven, come Sergio, è passato di sotto e rimango
incantato dalle sue brutte fotografie scattate in un oriente
che noi non abbiamo conosciuto, nel mezzo di un'Indocina
che solo con un eufemismo possiamo definire semplicemente
diversa da quella di oggi. Così mi sono trovato a
perdermi nel suo di sotto. E a sognare, naturalmente. Ciò
mi porta verso la seconda riflessione.
Due. Eravamo a Lhasa quando me la sono sentita addosso la
prima volta, la sensazione. Io, oggi, mi sento finalmente
parte di un mondo che per anni ho soltanto letto e sognato.
Adesso sì, adesso ne faccio parte, lo sento dentro,
lo conosco. Ne partecipo l'ideologia (sì, perché
a voler ben vedere è anche una ideologia).
Immagino che sia come stare seduti per anni a battere i
denti sulle gradinate di uno stadio e, per una volta, avere
l'occasione di indossare la maglietta, calpestare l'erba,
scambiar due pallonate con quelli che hai visto in tv per
una vita intera.
Qualcuno ha letto un mio profilo in rete da qualche parte,
dove sta scritto che amo i viaggi overland, e mi ha chiesto
se sia solo una boutàde. No, io *sono* un overlander,
ora.
Anche io ho dunque scavato il mio solco. A differenza di
Sergio però, ho portato da questa parte alcune cose
essenziali, ma inevitabilmente vietate per chi aspira alla
cittadinanza di Ùtopia. E ho saltato il fosso accompagnato,
mano nella mano, da Emanuela. E' una differenza non da poco.
Ricordo perfettamente ciò che Sergio ci disse prima
della nostra partenza: "Dopo, nulla vi sembrerà
più lo stesso". Sì, forse è una
banalità ed un'esagerazione.
Ma quanto ancor piccolo e riduttivo di prima mi sembra,
oggi, il palcoscenico nel quale, nostro malgrado, dobbiamo
recitare il solito copione per poter dare a Leonardo almeno
la possibilità di scegliere, domani, se quel solco
scavarlo ancor più profondo, o se rimanerne al di
qua, con gli occhi dentro alla televisione, sognando una
rovesciata acrobatica davanti a un rettangolo di tubi dipinti
di bianco.
Fino al prossimo overland. |
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Noi
ci siamo stati sull'Aral, mica a Paperopoli. Oddio, sull'Aral:
si fa per dire, perché là non c'era un tubo.
Acqua? Io non ho visto nemmeno le casse di minerale. Ho
visto un bambino che beveva da una pozzanghera in mezzo
alla strada, questo sì. E comunque è certo
che sull'Aral piove poco e ho il sospetto che quel po' di
pioggia sia pure contaminata da tutto il resto: avanzi di
ddt, avanzi di esperimenti chimici e batteriologici, sale.
Che altro?
Noi ci siamo stati sull'Aral. Abbiamo scritto un libro su
Asia
Overland 2002 e all'Aral
abbiamo dedicato una pagina, ma avremmo potuto scrivere
un libro sull'Aral e dedicare una pagina al resto, anche.
Perché l'Aral, io, ce l'ho ancora negli occhi. O
meglio, non ce l'ho proprio: io non ho visto nulla. Ho visto
un buco e molta sabbia. Mr. Usmanov mi ha detto che l'acqua
in realtà c'è, a ben vedere, ma un po' più
in là: cento chilometri più o meno. Ci si
può andare in elicottero, volendo. Non so, ma questa
cosa di volare su un avanzo arrugginito dell'era sovietica,
sopra al fantasma di un mare prosciugato, a me sembra quasi
una sfida alle leggi della sfiga. Altro che la mia paura
di volare. Lasciamo perdere, eh, Mr. Usmanov? Ci credo e
basta.
Noi ci siamo stati "dentro" all'Aral. Abbiamo
camminato sul fondo del mare. Avete mai provato a camminare
sul fondo del mare? Sulle acque uno c'è riuscito
e molti, dopo, hanno millantato di saperlo fare, ma camminare
sul fondo del mare - senza maschera e pinne, ovvio - provateci
a farlo, non è mica uno scherzo. Una cosa bisogna
dirla: raccogliere le conchiglie è più facile
così. Non che ce ne siano rimaste molte e, a dirla
tutta, fa anche un po' senso raccogliere "quelle"
conchiglie. Sai mai cosa stai toccando davvero...
Dovessi dire, non saprei esattamente perché siamo
andati all'Aral. Io volevo andarci perché qualcosa
avevo letto, avevo visto in tv, avevo sentito dire. E poi
che ne so, andiamo in tanti posti solo perché sono
lì (citazione), e quindi tanto che siamo in zona
perché no: chiamatela curiosità, turismo catastrofico,
avventura, coscienza, chennesò. Comunque, tanto che
eravamo in zona, abbiamo preferito l'Aral ad Osh, per fare
un esempio. Se l'Aral non fosse quello che è oggi,
probabilmente saremmo andati ad Osh. O tanto valeva andare
sul Caspio.
Ricordo bene quella strana sensazione nel venire via dal
dopobomba: io mi sarei fermato, avrei voluto rimanere seduto
su quella spiaggia - spiaggia? - ad aspettare il tramonto.
Dormire a Moynaq, sentire di notte il vento contaminato
dell'Aral che soffia attraverso le fessure di qualche avanzo
di casa costruita in fondo al mondo. Così, per provare
a capire cosa vuole dire, oggi, vivere sull'Aral.
Non è che adesso, qui, valga la pena riassumere per
chi non lo sa cosa *non* c'è all'Aral, che è
successo laggiù, riportare a galla (bè, "a
galla" si fa per dire...) la storia degli ultimi quarant'anni
di follia umana abbattutasi in mezzo alla già di
per sé deprimente piattitudine dell'Asia Centrale.
Internet è una miniera, anche per questo. Se siete
curiosi, potete fare una capatina qui,
qui,
qui,
e ancora qui.
O, più semplicemente, fare così.
Quello che è impossibile descrivere, spiegare, anche
solo provare ad immaginare, è la dimensione.
Il fatto è che tu te ne stai lì a Moynaq a
camminare sul fondo del mare, davanti a pareti di arenaria
che qualcuno ti racconta essere scogliere, hai capito bene,
vagando in mezzo agli scheletri arrugginiti e surreali di
navi arenate fra la sabbia e i cespugli: quello che avanza
di una specie di porto spettrale. Il tuo sguardo può
spaziare fino all'orizzonte, dove il cielo diventa bianco
perché il vento salato e contaminato dell'Aral solleva
ogni sorta di schifezza e la trasporta per centinaia di
chilometri, ed è inquietante, certo. La tua curiosità
è magari soddisfatta anche solo da tutto questo.
Ma il problema è che ciò che vedi non è
affatto tutto questo. E' solo una milionesima parte,
un francobollo in una biblioteca, 35mm di fotografia per
un infinito panorama day after. La verità è
che tu te ne stai lì a raccogliere conchiglie cercando
di non toccarle troppo, ma di fronte a te la follia è
infinita. Per centinaia di chilometri, centinaia di migliaia
di chilometri quadrati.
I tuoi occhi non la inquadrano l'angoscia, la tua mente
può forse intuirne la portata, ma non riesce a darle
la dimensione, la scala reale.
Provaci con questa:

dimensione 600x800
fonte www.redtailcanyon.com
L'avete aperta? Adesso fate due conti: ogni pixel dell'immagine
è pari a un quadrato di 1km di lato. Voi siete un
cinquecentesimo di ciascun punto. E siete a Moynaq, che
più o meno si trova dove ho piazzato quel brufolo
rosso: a molti, molti, molti punti di distanza da dove oggi
inizia l'acqua. Acqua? Sì, quella schifezza verde.
Oddio, non vi deprimete del tutto, il sensore del satellite
ci mette il suo zampino nel colorare le cose, ma insomma,
fa senso sì.
A proposito: il mio punto rosso copre un'area di circa 10x10
km... Moynaq è molto più piccola.
Dicevamo: siete dunque distanti dall'acqua molti punti,
verso il basso dell'immagine, dalle parti del punto rosso.
Perché siete lì? Bè, perché
è lì che è la spiaggia. Ops: che era
la spiaggia. E gli ombrelloni. E le cabine. E il porto,
i pescatori, i bagnanti, i turisti, le conchiglie - vive,
la vita. Era tutto lì, una volta. C'è ancora
il cartello a ricordarlo: "Moynaq, stazione balneare".
Non sopravvivono più a Moynaq, quei pochi che non
sono riusciti a scappare, ma certo hanno il senso dell'umorismo.
Nero.
Ancora fate un po' fatica, vero? Io ho provato a contare
i pixel. Un po' a spanne eh, tanto per farmi un'idea. La
"pozza" più grande è lunga circa
250 km. Se ho capito bene, una volta, quando al posto di
tutte quelle pozzanghere verdi c'era il quarto bacino chiuso
al mondo, quell'unica "pozza" era più o
meno circolare e aveva un diametro suppergiù di 400
km. In altre parole, copriva anche tutta quella regione
che qui vi sembra grigio-biancastra. Biancastra? Sì.
Sale. Solo sale, oggi. Sale per centinaia di chilometri.
Chi ha la mia età ricorderà le cartine geografiche
alle scuole elementari: non c'era mica quella roba lì,
non era mica fatto così l'Aral.
Io studiavo "c'è il Mar Caspio, ci sono i grandi
laghi americani, c'è l'Aral...". Col cavolo.
Un sacco di balle mi raccontavano.
Non so se a Moynaq ci fossero le discoteche come a Rimini,
ma di sicuro c'era lo stesso numero di bambini a fare il
bagno, e molta più acqua. Molta è un
eufemismo: un qualcosina tipo il 50% in più in superficie
ed il 75% in volume. Si faceva lo struscio sul lungomare
di Moynaq negli anni '50? Mah, non lo so mica se i russi
si strusciano. Però pescare si pescava. E non c'era
la mucillagine.
Oggi sono scappati quasi tutti. Il vento bianco dell'Aral
li insegue fino oltre Nukus, 200 km a sud est, e ancora
per migliaia di chilometri quadrati. Deserto che avanza,
sale, polveri chimiche, veleni. Per chi invece da Moynaq,
e dalle zone circostanti, non è riuscito ad andarsene
c'è solo una Chernobyl invisibile e sconosciuta a
gran parte del resto del mondo.
Moynaq è una città morta popolata da fantasmi.
Dovete guidare per parecchie ore prima di avere il coraggio
di respirare di nuovo a pieni polmoni.
Fatto sta che all'Aral, e a Moynaq, ci siamo stati. Chissà
se qualcuna delle mie amate t-shirt di cotone ha qualche
relazione con quell'immagine. Cosa c'entrano le t-shirt?
Le mie non lo so, quelle degli abitanti di Moynaq, loro
malgrado, temo qualcosa.
Viene da chiedersi se abbiano per caso provato a fermare
il sidecar e quelle tre Zigulì arancioni che abbiamo
visto arrancare per strada in paese. No perché, con
le micropolveri in sospensione, pare che funzioni...
N.B. Le immagini più surreali e incredibili stanno
qui.
Potete visualizzare l'immagine da satellite precedente alla
risoluzione 2400x3200, cliccando qui
(1Mb).
[avercelo il tempo di aprire 'sto affare ai commenti...
si potrebbe buttar lì qualcosina in proposito sulla
diga dello Yangtsé...] |
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Non è che Milano sia proprio grigia grigia. È che bisogna essere capaci di vederli i colori, a Milano. È che ci vuole immaginazione. È che dipende anche da come ti svegli al mattino.
Oppure spegni il monitor e per una volta al diavolo: non è ancora buio e pianti lì, esci dall'ufficio che è appena iniziato il crepuscolo e il cielo - anche a Milano qualche volta c'è - si sta colorando di indaco.
Ti infili nel traffico fra migliaia di stop rossi che illuminano questo inizio di serata e 105 Classics (perché stai ascoltando 105 Classics?) sta trasmettendo That's the way of the world degli Earth, Wind & Fire che, non so perché, ma con gli stop illuminati di rosso fluorescente ci sta proprio bene e mi commuove anche un po'.
È che stai correndo a casa, ché ti aspetta tua moglie e ti aspetta lui, e sarà che in istanti così per forza elabori ciò che ti sta intorno in modo del tutto diverso.
Non so, comunque navigo fra gli stop e ripenso a quello che ho letto oggi qui, e mi riconosco, e sono d'accordo con lui, quasi su tutto (ma non sul ghiacciolo all'anice e la colazione al bar e, ne sono certo, su un googol di altre cose non dette).
Perché io, la nebbia, la amo. E nessuno è mai riuscito a capirlo.
È che a Milano, i colori, bisogna anche saperli vedere, o almeno provare ad immaginarseli. Perché io li vedo, a volte.
C'è qualcosa di più malinconico e antico del campetto da calcio di un oratorio soffocato da là-dove-c'era-l'erba-ora-c'è (un campo sintetico)?
E pensare che stavo preparando un post infinito sull'Aral. |
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TAG: milano |
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Può anche darsi che sia vero, come ogni tanto mi
fa notare qualcuno, che io ami girare il mondo per collezionare
bandierine e numeri. Che possa essere una delle mie tante
motivazioni, anzi, è quasi certo. Sono altrettanto
certo che non è né la prima, né l'unica.
E, del resto, collezionare cianfrusaglie e contare sono
solo un paio delle mille attività inutili con le
quali riempio il mio tempo.
Ci aveva già pensato il CIGV
a sdoganare il collezionismo di bandierine; ora anche (e
non solo) Wittgenstein
segnala un sito
grazie al quale è possibile misurare quanto
(...?) ciascuno di noi conosce il mondo. Inevitabilmente,
l'ho misurato anche io: il 32%:

Tralasciando ovviamente il fatto che stiamo parlando di
un innocuo passatempo, e che qualunque volontario di una
NGO, che abbia lavorato sei mesi in Sudan ed abbia passato
il resto della sua vita a Cologno Monzese, conosce
il mondo sicuramente più del sottoscritto, questo
risultato merita alcune considerazioni:
1) A prima vista non mi sembra affatto che le zone rosse
siano solo il 32%... Umpf!
2) Vedere tutto quel rosso soddisfa il mio ego, ma la mappa
mente palesemente, a me e a gran parte di quelli che partecipano
al gioco. Se sei stato a Hurgada una settimana non hai visitato
l'Egitto un accidente. Io sono stato a New York e a Chicago,
ma non conosco affatto gli States, alla faccia di tutto
quel rosso in Nord America. Sono anche stato a Sydney e
in Tasmania, ma la mappa mi regala la conoscenza dell'intera
Australia. Grazie. Inizio a guardare con sospetto a quel
31%... Vuoi forse dire che conosco il mondo ancora meno
di ciò che penso? Il mio ego di grande
viaggiatore vacilla...
3) La mappa mi dice qualcosa che ho sempre saputo e che
mi rode da sempre: non conosco per un tubo l'Africa. Nessun
viaggiatore che ami definirsi tale può vantarsi di
conoscere il mondo se non ha masticato un bel po' d'Africa.
Il nostro prossimo overland è già pronto nel
cassetto.
4) La mappa mi dice che conosco molto bene l'Asia. Ma sì,
almeno questo è vero. Ma siamo alle solite: nascondo
nel rosso la grande lacuna dell'India. Ho visitato solo
Delhi e il Taj Mahal. E quindi, posso forse affermare di
conoscere davvero l'Asia? Ma va', chiunque abbia giorovagato
qualche settimana per l'India, conosce forse l'Asia molto
meglio di me che ho gironzolato per l'intero continente
per mesi e mesi.
5) E il Brasile dove lo mettiamo? E' la quinta nazione al
mondo per superficie, certamente una delle più interessanti,
multietniche, ricche di contrasti, culture, razze e religioni.
Io sono stato solo a Rio de Janeiro e all'aeroporto di San
Paolo. Altro che ego vacillante, inizio a pensare di dovermi
andare a nascondere. E un altro po' di rosso se ne va.
6) Non sono d'accordo sulla lista dei Paesi. La mappa me
ne accredita 72. il CIGV
me ne accredita 76. Io ne conto 79. I 7 Paesi in più
che considero, rispetto a quelli proposti da World66,
sono il Tibet, lo Xinjiang, la Tasmania, le Svalbard, la
Scozia, Ceuta e Hong Kong. Per lo più si tratta di
mere quisquilie geopolitiche, ma sfido chiunque a dire che
andare in Tibet o nello Xinjiang sia equivalente al visitare
la Cina, e che mettere piede alle Svalbard sia come andare
a Capo Nord. Provate poi a dire a uno scozzese che, per
quanto ci riguarda, fra lui e il suo vicino londinese non
c'è alcuna differenza politico-geografica.
Del resto, se la lista di World66 include Gibilterra, la
Nuova Caledonia e Reunion, non vedo per quale motivo debba
escludere il Tibet e Hong Kong. Al solito, non esiste un
metro universale. Difendo i miei 79 Paesi e al diavolo il
loro 32%. Riacquisto il mio ego.
Ritorno sulle mie: la lista
ufficiale ONU
elenca 257 territori e Paesi. Io ne ho visitati 79, e pure
in cinque continenti. Quindi ho visitato... il 30,7%...
Di nuovo...! Allora è proprio vero e devo arrendermi
all'evidenza. Di questo mondo non conosco un tubo. |
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Nota
inserita nell'aprile 2005. Prima di questo post il Giornale
di Bordo di Orizzontintorno non esisteva: al suo posto, c'era
una pagina mensile intitolata "Primo Piano" e, in
tempi successivi, vennero aggiunte alcune pagine speciali
dedicate alla nascita di Leonardo e alle prime prove con la
nuova macchina fotografica digitale.
Con la nascita del Giornale di Bordo (oggi definitivamente
trasformato in questo blog), avvenuta con la
pubblicazione su Orizzontintorno di questo primo post, quelle
pagine vennero riorganizzate e archiviate inserendole nel
giornale con data antecedente. Si tratta dei post che appaiono
datati 2003 e gennaio 2004..
***
Questo è un sito solo di viaggi? O più in generale
è un sito di fotografie? O è il nostro sito
e basta? O ancora, è il nostro diario di bordo?
Ripensandoci, ma perché abbiamo inventato Orizzontintorno?
Nella pagina introduttiva abbiamo scritto che Orizzontintorno
"ambisce ad essere una rada di approdo per naviganti
come noi"...
Forse a me piace pensarlo più come a un luogo di ritrovo:
una sorta di taverna fumosa vicino al molo di un porto, l'arredamento
in legno e le lanterne appese ai muri. Fuori dalla porta la
nebbia serale che sale dal mare avvolge ogni cosa, dalle finestre
filtra una luce gialla e i suoni che giungono all'esterno
risultano ovattati.
In questo luogo di ritrovo ci si incontra, si chiacchiera,
si gioca a carte, si sussurrano nuove rotte. Chi sta dietro
al bancone tira le fila, magari decide l'argomento. Chi gioca
a carte, se ha voglia, dice la sua. Oppure ascolta e basta:
il nostro luogo non è una taverna rumorosa, è
frequentato da avventori che si osservano silenziosi e con
un po' di circospezione, ma che sono tutti lì perché
qualcosa li accomuna.
Noi appendiamo alcune fotografie alle pareti imperlinate,
oppure raccontiamo per l'ennesima volta della grande tempesta
del '99, o del Marlin che abbiamo pescato quella volta e che,
ovviamente, ad ogni racconto è sempre più grosso.
Che strano: scrivo spesso per metafore marinare e sono un
uomo di montagna, essenzialmente. Il sangue genovese non mente...
Ci ho pensato a lungo: "Primo Piano" non mi piaceva.
Primo piano di che? Quando abbiamo lanciato Orizzontintorno
pensavo a una qualche rubrica da aggiornare tutti i mesi,
dove scrivere qualcosa, prendendo spunti qua e là,
così da rinnovare in qualche modo, periodicamente,
l'appuntamento con i visitatori.
Ma a dire il vero non è che abbiamo qualcosa da dire
periodicamente. Per lo meno, non alla scadenza di ogni mese,
come le bollette. E a dirla tutta, non è che se abbiamo
voglia di dire qualcosa questo sia necessariamente legato
ai viaggi e al viaggiare, per quanto possa essere allargato
il significato stesso del Viaggio.
A me, ad esempio, piace scrivere: punto. Mi piace anche avere
la libertà di essere noioso e considero un Viaggio
anche la mia stessa esistenza. Soprattutto ora che è
arrivato Leonardo e che, insieme a Emanuela, siamo appena
partiti per la più grande avventura della nostra vita.
Che certo, ci porterà anche fisicamente in molti luoghi
lontani, ma che sarà fatta soprattutto di immagini
ed eventi quotidiani.
Abbiamo una nuova macchina fotografica digitale e già
non me ne separo quasi mai. Ho sempre sognato di poter fermare
dentro alla mia esistenza alcune immagini a caso, senza apparente
necessità, solo per congelare alcuni istanti che non
hanno significato alcuno se non il fatto di essere vissuti
e basta. Fotografare cose, momenti, situazioni, facce a caso.
Sparare nel mucchio.
Non è certo un'idea nuova, anzi, sono l'ennesimo ritardatario.
I fotoblog spopolano in rete, quindi non voglio fare un fotoblog.
Anche perché a me piace - anche - scrivere. Ma non
voglio neanche fare un blog. Ne leggo già alcuni e
c'è sempre quella pia illusione di voler essere un
po' più originali a tutti i costi, senza mai riuscirci.
Però lascio appesi commenti qua e là, navigando
a caso fra i blog altrui: lascio le impronte come Pat, che
adesso è intuile star qui a spiegare chi è.
Ma la verità è che non mi piace commentare,
se non posso decidere io qual è il tema. E il mio tema
non è mai quello di altri.
No, non lo faccio un blog, e nemmeno un fotoblog. Cambio titolo
alla rubrica (Emanuela, posso?) e ci metto quel che capita.
Ad esempio, ci piazzo questo, perché è un frammento
del mio viaggio quotidiano, ed è anche un po' inquietante:
E poi ci piazzo tutto quello che in quest'ultimo mese è
entrato di soppiatto dentro Orizzontintorno: Leonardo,
Milano,
e ancora Milano.
E ancora, tutto quello che era "Primo Piano":
la Cambogia,
via
Murat (che devo ancora fotografare), le Facce
di Emanuela, l'attesa di Zuz.
Ed è solo l'inizio. Anche perché ora, finalmente,
mi sono liberato di questo appuntamento mensile: posso scrivere,
fotografare, annoiare, quando ne ho voglia. Anzi, Manu,
lo fai anche tu?
(Come dite? Si chiama blog? E' già stato inventato?
Maddai... Vabbè, allora, appena avrò tempo,
magari lo aprirò anche ai commenti. Fino ad allora
mi rifiuto di definire "blog" questo spazio).
E se non è un Viaggio anche questo‚Ķ |
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