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Ieri mattina, in macchina. Potrebbe essere una qualunque
mattinata d'inverno a Novosibirsk, suppongo. Un po' calda
se vogliamo: zero gradi. Però, l'orizzonte grigio
neve è il medesimo, il cielo che fiocca abbondantemente
anche e il nastro di asfalto gelato che corre attraverso
i campi abbandonati della periferia non è certo molto
dissimile da quelli che abbiamo visto in Siberia.
Non stessi guidando, potrei anche tirarne fuori qualche
scatto interessante. In ogni caso, per quanto possa parervi
strano, a me questo ovattato e plumbeo orizzonte da inverno
ad est piace, eccome. Mi culla, mi avvolge, mi trasmette
ricordi e senzazioni.
Per inciso: neve a febbraio in Val Padana e zero gradi non
sono un'ondata di freddo eccezionale. Né sono
uno stato d'allerta per la Protezione Civile. Questi
eventi si chiamano stagione, così come trenta
gradi d'estate. Io, davvero, odio la spazzatura mediatica
che ci tirano addosso, la considero un'offesa alla mia intelligenza.
Guido in mezzo a questo turbinìo di fiocchi bianchi,
perso nei miei pensieri. La radio diffonde un qualcosa di
Mick Jagger. Non so perché - e, a dire il vero, è
uno dei miei ricordi ricorrenti. Fatto sta che ho ancora
ben nitida un'immagine stampata nella mia testa, a colori.
Estate 1985, seconda metà di agosto, probabilmente
intorno al 20, o giù di lì. Casello della
Torino-Savona, caldo torrido, autostrada deserta. La mia
leggendaria Citroen Visa Club II 650 color cacchetta
(per la precisione, chiamato "visone" sul libretto).
Dentro: Roberto ed io, di ritorno dal nostro primo
4000, in viaggio verso le bianche pareti calcaree
di Finale Ligure. L'ultima moda, all'epoca.
Entrambi indossiamo una canottierina colorata della Think
Pink, entrambi portiamo occhiali da sole a specchio ed un
foulard arrotolato attorno alla testa. Siamo sudati fradici.
Fra i sedili posteriori e il bagagliaio, ammucchiati in
ordine sparso, rotolano scarponi, ramponi, piumini, piccozze,
zaini, corde e una buona quintalata di materiale piuttosto
inconsueto per chi viaggia verso il mare in una qualunque
giornata di agosto a quaranta e passa gradi. Anche un paio
di viti tubolari da ghiaccio. Una delle due mi è
persino capitato di usarla. Una dozzina d'anni dopo, però.
L'autoradio-mangianastri (contrabbandata dal Marocco l'anno
precedente) macina a fatica una vecchia cassetta C90 con
su questo.
Al casello rallentiamo e ci guardiamo in faccia: "Ma
daccheccazzo di film siamo usciti?"
Note: La Visa ha tirato le cuoia 7 anni e 150.000 km dopo,
davanti all'autogrill di Gropello Cairoli, autostrada Genova-Milano.
Le foto sono originali di quei giorni dell'85. Qualche anno
più tardi, per il suo trentesimo compleanno regalai
a Roberto un poster con la sua foto in alto a sinistra. Non
so se l'abbia ancora fatta vedere a sua figlia.
(A proposito: devo mica dirvi chi è quello a destra...) |
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Leonardo osserva attentamente la neve che cade. Non è
la prima che vede, ma lo scorso anno aveva poche settimane
di vita e non la ricorda certamente.
Leonardo tende la manina intimidito per toccare un fiocco
e immediatamente la ritrae, sorridendo sorpreso. - E'
fredda, Leonardo, è neve.
Leonardo guarda stupito la neve che si scioglie istantaneamente,
appena la tocca. Di nuovo mi guarda e sorride. - E' la
neve che il tuo papà ama così tanto, Leonardo.
Leonardo appoggia la testa sulla spalla del suo papà
e sospira. Anche oggi abbiamo imparato qualcosa di nuovo.
Quante cose bisogna imparare, accidenti. |
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7.45, nel mio ufficio al decimo piano. Sono pari, io. Sarebbe
anche una mattinata meravigliosa, a voler ben vedere. Se
riuscissi ad aprire gli occhi. Se avessi dormito più
di tre ore (no, non è per questo).
Se mi trovassi in un rifugio d'alta quota davanti a un tè
bollente e non, appunto, nel mio ufficio.
Dalla finestra osservo la luce rosa e viola colorare a nord
un orizzonte il cui profilo verticale, lungo qualche centinaio
di chilometri, racchiude la pianura attorno a me. Mi è
familiare questa vista, ma mi incanta sempre come fosse
la prima volta.
In fondo, ad occidente, la piramide perfettamente triangolare
del Monviso. Poi lo sguardo corre da ovest ad est: a destra
il Monte Rosa si alza all'improvviso, disegnando una parete
bianca e scintillante contro il cielo. Oltre, una teoria
di creste che a poco a poco tornano ad essere solo marroni.
Il Pizzo Stella, il Legnone, i monti della Val Chiavenna.
E ancora, le linee regolari delle Grigne: le potresti toccare,
proprio qui davanti. Distinguo quei canaloni che ho percorso
decine di volte e le rughe della Grignetta. Poca neve, appena
accennata sul paretone. Ancora più a oriente, al
di là del Resegone, la vista sfugge fino alla Presolana
e all'Adamello... O forse sono già Ortles e Cevedale?
Adesso scrivo a Gusme
e glielo chiedo.
E qualcuno ancora viene a raccontarmi del panorama attorno
a Torino.
Anche a Torino ho un ufficio: al dodicesimo piano dell'unico
vero grattacielo in città. Col cavolo che regge il
paragone.
Fra un'ora la foschia grigia nasconderà tutto, fino
ad un tramonto probabilmente incandescente e nucleare, come
spesso accade in giornate come questa. Naturalmente ho lasciato
a casa la piccola digitale, anche se in realtà ci
vorrebbero la mia fedele Nikon e il suo zoom.
Un paio di sere fa: mi trovo in Piazza Duomo, più
o meno intorno alle nove. Aria fredda, ma non pungente.
La Galleria quasi deserta, pochissima gente in giro, luci
soffuse di vecchi lampioni attorno al Duomo. La Madonnina
illuminata incisa contro un cielo nero limpidissimo, sotto
una mezzaLuna quasi alogena.
Nessun vero rumore. Una base appena accennata di musica
chilly out diffusa sotto ai portici, davanati a La
Rinascente; un leggero brusìo di voci in sottofondo:
un po' di russo, di spagnolo, un lieve inglese molto british,
il solito pizzico di arabo, l'immancabile giapponese. Anche
tre romani incravattati in trasferta milanese.
- Ci sarà un posto dove mangiare qualcosa qua
attorno...?
No, a dire il vero siete fuori zona: a Milano non si
mangia in Duomo. Almeno, non secondo il concetto romano
di mangiare.
Tutto qui. Noi e nessun altro, e poiché io non parlo
direi che nell'aria non c'è alcuna inflessione milanese,
né avverto rumori estranei: non squillano cellulari,
non c'è traffico, non ci sono urla.
E' così che io amo Milano e Milano mi commuove, quasi,
quando mi avvolge così, a me che vengo dal mare e
che sono uomo di montagna. E' la mia Milano, fredda, silenziosa,
le cui centinaia di guglie e statue di marmo bianco che
si innalzano dalla più straordinaria architettura
del mondo bucano il cielo notturno.
Hanno anche tolto le insegne pubblicitarie luminose dalle
facciate dei palazzi. Non ci avevo fatto caso fino a questa
sera.
I russi fotografano la Galleria coi telefonini. Le due ragazze
giapponesi si stringono nei cappotti e camminano guardando
per aria. Io me ne sto lì in mezzo, non mi nota nessuno
e forse sono totalmente invisibile.
Amo questa città, questa stessa città che
mi nausea presa in un qualsiasi sabato pomeriggio, stesso
punto d'osservazione, stesso palcoscenico, stesso marmo
bianco. Questa stessa odiosa e grigia ammucchiata di palazzi
che mi inghiotte nel suo maledetto traffico al piombo, ogni
mattina dell'anno. Questo groviglio di asfalto e cemento
dal quale solo qualche mese siamo fuggiti, per aprire le
finestre davanti agli alberi e alla Grigna, ogni mattina.
Poi, un pub inglese, a pochi passi dal Duomo. Un angolo
di Dover, o forse di Manchester. E' quasi vuoto. Ci siamo
solo noi, un paio di giovani inglesi con la loro pinta,
un personaggio solitario seduto in un angolo col suo hot
dog. Ci scommetteresti il tuo conto in banca che è
inglese pure lui. Del resto, indossa un abito molto inglese.
E' qui per lavoro, gioca con il telefonino.
Silenziosi schermi tv, appesi alle pareti, fra magliette
del Liverpool e dell'Arsenal. Rimandano le immagini colorate
di Sky, quella vera. Calcio, naturalmente. Nessun altro,
null'altro.
Mangio il mio hot dog, bevo la mia Kilkenny. Come vent'anni
fa. Anzi, no: vent'anni fa avrei ordinato una Tennent's
Super. Non so perché questa sera ho ordinato Kilkenny. |
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Ho molto sonno e devo alzarmi presto. Ma dubito che riuscirò
a dormire un granché dopo aver visto, anche io, il
video.
Qualunque sia la mia opinione in merito. Qualunque sia la
vostra, voi dormite? E poi, francamente, chissenefrega delle
nostre opinioni. Dei dibattiti, delle analisi, degli approfondimenti,
dei se e dei ma e dei senza se e dei
senza ma. Basta. Basta. Basta.
Lasciatela andare. |
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Negli ultimi giorni mi sono segnato qualche appunto da
appiccicare come al solito in questa bacheca, caso mai voleste
dare un'occhiata anche voi.
Ha fatto molto rumore la storia di Mariam,
l'immigrata filippina vittima della nostra burocrazia da
terzo mondo. Più inosservato, ma molto interessante,
l'intervento di Emma Bonino sulla questione del Kosovo
pubblicato dal Corriere. Naturalmente non mancano i soliti
aggiornamenti dalla Cina, qui
e qui.
Infine, Pfaall ha dedicato una serie di interventi a ciò
che sta accadendo in Nepal, a partire da questo:
tanto per cambiare, sono fatti completamente ignorati dai
nostri Media.
A tal proposito, poiché nel nostro Giornale di Bordo
non appare la consueta sparata di link tipica dei weblog
- in parte perché su Orizzontintorno esiste già
una sezione
dove segnaliamo altri siti web e in parte perché
Emanuela ed io seguiamo rotte differenti nella nostra navigazione
- ecco, per una volta, una lista di cosa si trova abitualmente
sul mio comodino on line.
Se passate spesso da queste parti, sapete già che
non manco mai il mio appuntamento quotidiano con Sofri junior
e il suo Wittgenstein,
né con il già citato Pfaall
di Flavio Grassi.
Leonardo è un genio. Mi piaceva prima, è
semplicemente straordinario l'esperimento che sta portando
avanti da inizio anno.
Sasaki lo seguo dall'esordio. Pur non condividendone
spesso le opinioni, ne riconosco l'intelligenza fuori del
comune. Da lui ho imparato la sospensione d'incredulità
ed è l'unico con il quale, talvolta, ami dibattere.
Il Manteblog
di Massimo Mantellini ha un qualcosa di familiare che mi
fa sentire a casa. Una fermata a dare un'occhiata la faccio
sempre.
Mi tengo aggiornato su ciò che accade in verticale
leggendo (anche) Intrablognews. |
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Io, casualmente, sono titolare di tre carte American Express.
Una aziendale, una omaggio del Club Ulisse Alitalia ed una
omaggio di non mi ricordo più che. Dovessi pagarle,
ce ne vorrebbe una quarta.
Avendo traslocato, due mesi fa ho comunicato ad American
Express il nuovo indirizzo e poiché viviamo ormai
in un mondo tecnologicamente avanzato ho potuto farlo utilizzando
il loro efficientissimo sito web, al quale sono peraltro
registrato da tempo.
Naturalmente, gli estratti conto hanno continuato ad arrivarmi
al vecchio indirizzo.
Ieri mi sono arreso: è vero, siamo in un mondo tecnologicamente
avanzato, ma non perfetto, né infallibile. Così,
ho deciso di ricorrere al buon vecchio telefono. Del resto,
nella nostra era tecnologicamente avanzata, una delle più
straordinarie innovazioni è il Call Center per i
clienti.
Poiché ho tre carte American Express, ho dovuto scegliere
quale, fra i vari numeri del loro servizio clienti, chiamare:
non esiste un unico numero a cui rivolgersi per tutte le
carte American Express e, soprattutto, nessuno di quelli
disponibili è un numero verde. Sono tutti numeri
di telefono ordinari, precisamente della rete di Roma.
Mi preparo spiritualmente, sono vaccinato: decido di iniziare
chiamando il numero per le Gold Credit Card. Mi risponde
l'amministratore delegato di American Express, che mi intrattiene
per due buoni minuti spiegandomi che l'azienda sostiene
Save the Children, che posso fare una donazione con
la mia carta e che bla bla bla.
Intanto, però, sto facendo una bella donazione a
Telecom.
Terminata la registrazione, accedo al servizio clienti.
Digito il numero della mia carta di credito, digito il mio
codice segreto di identificazione personale, digito 0 per
parlare con un operatore. Musichetta d'ordinanza, qualche
altro minuto che se ne va - per carità, nulla a confronto
di altri leggendari call center, ma tant'è in questo
caso pago io l'interurbana Milano-Roma.
Dopo un po' risponde un gentile operatore: mi conferma che,
effettivamente, non risulta alcuna variazione di indirizzo
e procede quindi ad aggiornare nuovamente i miei dati.
Chiedo se la modifica vale per tutte e tre le carte di cui
sono titolare. Domanda stupida, inevitabile risposta: no.
Ma il fatto interessante è che a quanto pare non
solo il mio amico non può aggiornare i dati delle
altre due carte, ma non può nemmeno trasferire la
chiamata ai suoi colleghi che, rispettivamente, se ne dovrebbero
occupare. In altre parole, devo telefonare da capo al servizio
clienti (di Roma).
Sono vaccinato. Sono talmente vaccinato che non faccio una
piega. Buongiorno, grazie, grazie a lei,
ci mancherebbe, mi saluti i suoi, buon
lavoro.
Passo così al secondo numero: chiamo il servizio
clienti della carta Alitalia. Mi risponde, di nuovo, l'amministratore
delegato di American Express che mi intrattiene per un altri
due minuti spiegandomi che l'azienda sostiene Save the
Children, che posso fare una donazione con la mia carta
e che bla bla bla. Nel frattempo, Telecom gode.
Termina la registrazione, digito di nuovo il numero della
mia carta di credito, digito il mio codice segreto di identificazione
personale, digito 0 per parlare con un operatore. Musichetta
d'ordinanza, eccetera.
Questa volta risponde una gentile signorina. Anche lei verifica
che il mio indirizzo non è affatto stato aggiornato,
anche lei procede alla modifica.
Siccome sono un po' gnucco, le chiedo se può - gentilmente,
per caso - effettuare la variazione anche per la mia carta
Corporate, evitandomi di fare una terza telefonata e di
sentire ancora, fra l'altro, il suo Amministratore Delegato
raccontarmi che l'azienda sostiene Save the Children,
che posso fare una donazione con la mia carta e che bla
bla bla.
Domanda stupida, risposta meno: sì, non c'è
alcun problema.
Ora, alcuni quesiti.
Numero uno: secondo voi, dove arriveranno i miei prossimi
estratti conto?
Numero due: perché i due operatori hanno dato una
risposta differente alla medesima domanda?
Numero tre: perché la procedura di variazione dei
dati anagrafici sul sito di American Express non funziona,
sebbene tutto lasci presumere il contrario?
Numero quattro: perché dopo essermi identificato
automaticamente al telefono digitando numero di carta di
credito e codice segreto di identificazione personale, devo
comunicare il medesimo codice all'operatore per una nuova
identificazione? In altre parole: perché l'operatore
mi chiede il codice segreto di identificazione personale
che a) ho appena digitato per accedere e farmi riconoscere
dal servizio e b) si suppone, appunto, che sia segreto (altrimenti
a che serve)?
Come se, dovendo prelevare del contante allo sportello della
mia banca, il cassiere mi chiedesse il PIN del mio bancomat.
Quesito finale per i meno esperti: con quanti Call Center
dovrò avere a che fare in seguito al cambio di indirizzo? |
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