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Anche questa volta me lo sono letto tutto. Nulla da dire:
la Fallaci, tecnicamente parlando, viaggia sempre una spanna
al di sopra della media. Scorre, scorre e corre, eccome.
Se inizi, non la molli fino alla fine, non ce n'è.
Magari ti fa imbestialire, magari useresti la pagina di
giornale per attività che mal si accoppiano con il
piombo dell'inchiostro. Ma in fondo ci arrivi, non fosse
altro per vedere dove va a parare.
Peraltro, è fin troppo noiosa e scontata la solita
levata di scudi che da buona parte delle "pubblica"
opinione intellettualpolitica si solleva scandalizzata contro
il suo ennesimo anatema.
Me lo sono letto con attenzione il pezzo.
In via del tutto generale, la Fallaci argomenta i concetti
in un modo francamente smontabile solo con difficoltà
e avendo ottime cognizioni di causa. Altrimenti alzi la
mano, davvero, chi non ne condivide alcune posizioni, considerate
singolarmente, una ad una. Perché il fatto è
che sono proprio quelle argomentazioni a tenere banco, laddove
invece i suoi detrattori si arrampicano su luoghi comuni
consueti e bolliti, in nome di principi che molto raramente
sono in grado di sostenere con altrettanti argomenti e difendere
in modo altrettanto intelligente.
Abbaiare è fin troppo facile, soprattutto quando
la materia si presta ad essere frullata da un'opinione pubblica
anestetizzata dai nostri monoMedia; mordere davvero è
molto più difficile e richiede denti, che spesso
chi abbaia non ha.
Ci provo io. O meglio, oso. Ché certamente non ho
affatto le credenziali per farlo, né la statura,
ma poiché sono assolutamente d'accordo con la Fallaci
quando afferma che perseguire il reato d'opinione è
una cagata pazzesca (lo scrive Villaggio, posso scriverlo
anche io), allora difendo in primis il mio diritto ad avere
un'opinione e a ritenerla confrontabile, almeno nella mia
piccola quotidianità, con la sua.
Io credo molto banalmente che sia il filo logico, sia il
risultato dell'analisi fallaciana, non stiano in piedi.
Almeno, non sulla base di quegli stessi principi di democrazia,
civiltà e tolleranza, laici o cristiani che siano,
che lei prende quale metro di riferimento.
Poi posso darle (ahimé) ragione su mille altre cose.
Ma non sul pacchetto complessivo che confeziona con il fiocco
per i lettori del Corsera.
Faccio un passo indietro. Iran, autunno 2002. Emanuela ed
io siamo ormai in viaggio verso casa e Tehran è sulla
nostra strada. Abbiamo già esperienza di Paesi arabi:
ci siamo sempre trovati bene, certamente molto più
di quanto - tanto per fare un esempio - entrambi non ci
siamo trovati in estremo oriente. Ne veniamo dall'Asia Centrale
e, ancor prima, dal subcontinente e dalla grande Cina.
Entriamo in Iran non attraverso la porta principale, né
intruppati in qualche anestetizzata comitiva di occidentali
filoradical-chic, anzi. Attraversiamo una remota frontiera
nel deserto, a pochi chilometri dall'Afghanistan, nelle
estreme regioni orientali che sono fra l'altro la culla
dell'integralismo sciita. Del resto, la nostra prima tappa
è proprio Mashhad, la città santa per eccellenza,
al di fuori delle rotte turistiche tradizionalmente battute.
Tehran è molto lontana da Mashhad, non solo fisicamente.
Non meno di quanto Palermo sia lontana da Bolzano, tanto
per intenderci. Con qualche differenza fondamentale: i treni
a Mashhad funzionano bene come nella capitale e in generale
è così per tutti i servizi. Gli impiegati
pubblici di Mashhad parlano inglese correttamente, come
quelli di Tehran, e la disponibilità verso il turista
occidentale è esattamente la medesima. Lo sono anche
i sorrisi della gente e la famosa quanto temibile (!) ospitalità
aggressiva iraniana.
Le strade - ben asfaltate e segnalate - ed il traffico sono
uguali, ad est come ad ovest. Gli iraniani allacciano le
cinture anche a Mashhad e se ti capita di prendere il taxi
puoi stare certo che l'autista ti farà segno, per
favore, di adeguarti al codice. In cambio, se il viaggio
è lungo, può capitare che si fermi da qualche
parte e ti offra un'anguria per rinfrescarti.
Ci sono anche molte differenze fra Mashhad e Tehran, un
po' come fra Palermo e Bolzano. A Mashhad le donne scompaiono
sotto lo chador nero, a Tehran le giovani iraniane progressiste
sfidano le secolari leggi coraniche lasciandosi scappare
lunghe ciocche di capelli fuori dai foulard colorati, provocatoriamente
portati sempre più indietro sulla testa.
Però, sul treno fra Mashhad e Tehran, così
come su quello fra Tehran e Tabriz, puoi lasciare più
o meno tranquillamente il tuo bagaglio incustodito. E a
proposito: a Mashhad e a Tehran a quanto pare puoi andartene
in giro abbastanza tranquillamente anche di notte, anche
se sei donna e straniera. O almeno, diciamo senza usare
certo più precauzioni di quelle che useresti a Milano,
o a New York, o ad Amburgo. Cito a caso.
Parlano volentieri gli iraniani. Di business, soprattutto.
In questo, non sono molto diversi dai loro colleghi di quasi
tutta l'Asia. Non ti parlano, però, come se si rivolgessero
ad un estraneo - come invece fanno i loro colleghi cinesi,
ad esempio. Né certo come ad un cane infedele. Oddio,
che tu, in quanto occidentale, sia una curiosità
per loro è innegabile e se poi ci può scappare
del business tanto meglio. Ma non ricordo di alcuno che
mi abbia dato l'impressione di vedermi come un potenziale
bersaglio, o come un essere inferiore, o come un bianco,
grasso e ricco imperialista. Né mi sembra di averne
incontrati con lo zaino in spalla carico di esplosivo, o
desiderosi di immolarsi per una qualunque stronza causa.
Nemmeno gli impiegati di Mashhad. Nemmeno quelli che lavorano
ad Àstàn-é Qods-é Razavì,
che è un po' come dire che non mi sembra di aver
mai incontrato predicatori cattolici invasati in San Pietro.
E sì che i muezzin di Àstàn-é
Qods-é Razavì non devono certo essere particolarmente
moderati verso noi corrotti e corruttori occidentali.
Ma forse queste sono tutte percezioni distorte. Una cosa,
però, è certa: sono percezioni vissute. Mi
chiedo quanti, fra coloro che abbaiano in una direzione
piuttosto che nell'altra, possano dire di avere la medesima
cognizione di causa. E parlo di opinione pubblica, non di
opinionisti titolati a farlo.
Ritorno al punto.
Il grido della Fallaci, ormai trito e ritrito, affonda le
radici in esperienze certo molto più consolidate,
tangibili e credibili di quelle che porto io. Non mi metto
sicuramente a confrontare le credenziali, ci mancherebbe.
Ma quello che personalmente non condivido è il ragionamento
che via via lei sviluppa.
Guerra, e va bene: ma contro chi? Non si spara ad una ideologia,
tanto meno senza selezionare fra le possibili interpretazioni
alle quali quella medesima ideologia si presta. E la gran
parte della gente comune, di qualunque Paese, luogo, razza,
religione, cultura di appartenenza sia, non è mai
né direttamente coinvolta, né riconducibile
all'ideologia in quanto tale professata da pochi.
Salgo un gradino. Tralasciando lo sciagurato errore strategico
compiuto dall'amministrazione Bush - e da tutti coloro che
l'hanno seguita - con la campagna irachena, diciamo che
va bene: l'America e l'Occidente sono stati attaccati per
primi l'11 settembre 2001. Diciamo anche, semplificando
così mostruosamente, che i mandanti dell'attacco
se ne stessero rintanati in Afghanistan con la benedizione
del Mullah Omar, e che di conseguenza radere al suolo l'intero
Paese abbia potuto essere una reazione umanamente
inevitabile, ancorché discutibile, o non
condivisibile, ma che ci sia potuta stare. Per carità,
agghiacciante.
So what? Guerra a chi, dopo?
Perché ciò che distingue - o che dovrebbe
distinguere - la nostra moderna concezione occidentale,
laica o cattolica che sia, di civiltà, democrazia
e libertà, da quella barbara e disumana che la Fallaci
attribuisce in toto alla cultura islamica, dovrebbero proprio
essere la logica razionale, la capacità e la predisposizione
al dialogo, la moderazione, il rifiuto della violenza, il
proporsi come alternativa - soprattutto nei fatti - alla
cultura della guerra e dell'odio. Come si dice: non metterti
a discutere con un idiota, la gente potrebbe non cogliere
la differenza. E' un'astrazione estrema, va bene, ma giusto
per cogliere il punto.
E allora: guerra a chi? Perché? In nome di cosa?
E qual è il messaggio della Fallaci? Io non riesco
a coglierlo e lei non me lo spiega, mi riempie solo la testa
di anatemi, insulti e terribili profezie.
Non capisco: dobbiamo forse buttarli tutti a mare? Invadere
ogni Paese musulmano e raderlo al suolo in nome della nostra
democrazia? E perché, allora, tanto che ci siamo,
non includere nella lista anche la Corea del Nord, o meglio
ancora la Cina, che proprio ieri è tornata a paventare
l'impiego delle armi atomiche in risposta ad un uso ipotetico
di armi convenzionali occidentali a supporto di Taiwan?
E perché non andare a prendere a calci Putin e i
suoi amici, che certo musulmani non sono, ma che in Asia
Centrale calpestano quotidianamente qualunque fra i principi
che tanto piacciono alle nostre civili democrazie e alla
Fallaci stessa?
Io ho camminato sicuro per le strade di Tehran, ed Emanuela
- con un velo in testa - pure. Ho trovato gente cordiale,
aperta, disponibile. Non posso dire la stessa cosa di Almaty,
tanto per tirare un nome a caso. Non posso certo dire la
stessa cosa nemmeno di Milano, tanto per tirare un altro nome
a caso. E vorrei osservare che non potevo dirlo nemmeno
prima dell'avvento delle ondate migratorie che hanno portato
in Italia e in tutta Europa il Mostro, come lo chiama la
Fallaci.
Torniamo in Cina. Lo Xinjiang, nell'estremo occidente del
Paese, occupa circa un quarto della Cina intera ed è
abitato da una larga maggioranza etnica musulmana. C'è
qualche milionata di uyghuri nell'area che da cinquant'anni
è perseguitata dal governo di Pechino, né più
né meno di quanto accada analogamente ai tibetani
in casa loro.
Chi sono, dunque, i cattivi nello Xinjiang? E se anche nella
moschea di Kashgar si nascondessero estremisti islamici
fanatici carichi di dinamite, chi ha ragione fra questi
ultimi e la temibile polizia politica cinese che controlla
l'intera regione? Già mi viene la pelle d'oca ad
usare il termine ragione.
Io ho mangiato al tavolo dei commercianti di Kashgar, e
sono stato invitato a prendere il té dagli avventori
di Hotan. Non mi è sembrato che nessuno di loro volesse
sterminarmi: di certo non mi hanno avvelenato, perlomeno
non più di quanto non abbiano fatto induisti, confuciani,
taoisti, ebrei, seguaci dello sciamanesimo mongolo e atei
in generale in giro per tutto il resto dell'Asia.
Quindi, siamo in guerra? Con chi, Iraq a parte? Con l'Iran?
Con l'Arabia Saudita? Con la Libia, la Tunisia, l'Egitto,
la Siria, gli Emirati, l'Oman, l'Algeria? O con il Senegal,
l'Albania, la Romania, le Filippine, la Cina, l'intero Sudamerica,
l'Ucraina? Così, per dire: tutta gente che arriva
e lavora qui, legalmente o meno. Si infiltra nella nostra
società, manda i propri figli a scuola con i nostri,
professa talvolta altre religioni. Ruba, come noi. Tende
spesso a farlo più per fame che per altri motivi.
Noi, più che altro, per farci il Cayenne.
Sto estremizzando, lo so. Ma cerco di ragionare, giocando
sullo stesso piano della Fallaci, e quindi devo volare alto.
Butto lì: la nostra democrazia e civiltà è
anche quella dell'ETA, dell'Irlanda del Nord, delle Brigate
Rosse. Che c'entra il Corano? Lo Stato Italiano ha forse
combattutto le Brigate Rosse dichiarando guerra al PCI?
Sono tuttavia d'accordo quando scrive - o vorrebbe scrivere
- che tolleranza, integrazione e disponibilità, non
significano e non devono significare annullamento dei nostri
valori per far spazio a culture aliene. Ma entriamo su un
terreno assai spinoso. E' un po' come il dibattito crocifisso
sì, crocifisso no: non ha mai dato fastidio a nessuno,
il crocifisso, finché qualche testa vuota non ha
iniziato a strumentalizzarne stupidamente il valore simbolico.
Sono d'accordo con la Fallaci quando si scaglia contro la
faciloneria e la demagogia con la quale i nostri politici
e una certa classe intellettuale mescolano indifferentemente
alcuni episodi di criminalità comune compiuti dagli
immigrati con il problema del razzismo e della tolleranza.
Ma il brevissimo passo verso la generalizzazione è
tanto stupido quanto strumentale.
Peraltro la Fallaci, in questo senso, non fa altro che dar
fiato a quello che pensa(va) la mia segretaria - che spero
non legga, o che se legge mi auguro non me ne voglia. Sta
di fatto che è un campione statistico perfetto: "Non
ho nulla contro di loro, finché se ne stanno
a casa propria e non mi danno fastidio."
Certo, bisognerebbe capire chi sono loro, anche perché
davanti alla fotocopiatrice lei non me lo sa spiegare, tranne
genericamente indicare tutti quelli che vengono qui.
Dice solo che rubano tutti, che ci vogliono solo male, che
sono tutti terroristi e delinquenti. Chissà cosa
ne pensa la mia filippina che ormai da dieci anni lavora
per me ed alla quale affidiamo qualche volta anche Leonardo.
La Fallaci gioca a fare la Cassandra e dall'alto della sua
penna lancia mòniti a noi, povera massa inerte e
rincoglionita che accoglie il diavolo in casa e assiste
impotente alla propria condanna a morte.
Ora, io posso anche svegliarmi, come mi chiede lei, ma quand'anche
mi sia seduto sul bordo del letto che altro posso fare se
non smettere di andare in metropolitana? Non devo più
parlare al macellaio egiziano? Smetto di versar soldi ad
Emergency? Voto Lega?
Grazie, ma dovendo proprio scegliere preferisco tenermi
l'egiziano e mandare a casa Calderoli.
Alla Fallaci vorrei poter rispondere che mi è piaciuto
il suo pezzo. Davvero: vorrei saper scrivere io così
e inventarmi quattr'anni o finoggi.
Ma vorrei spiegarle che temo nessuno di noi abbia bisogno
di lei per immaginare che con buona probabilità il
prossimo sarà il nostro turno e sì, attorno
alle elezioni del 2006. Se vuole lo scrivo anche io, così
poi potrò unirmi a coloro che lo avevano detto e
starnazzare che noi sì che eravamo svegli.
Ma a parte che preferirei passare l'intera mia vita da idiota,
piuttosto che far centro su questo tipo di previsioni, come
preveniamo questa possibilità? Bombardando Tehran
e Mashhad? O dialogando con il macellaio egiziano sotto
casa?
(*) Lo spunto per il titolo l'ho preso da qui. |
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Non ho resistito alla tentazione e mi sono registrato per
il download. Pensavo anche, quasi, di fare il furbo e metterla
direttamente in linea su Orizzontintorno, disponibile a
tutti, ma suvvia: basta utilizzare un indirizzo e-mail dummy
ed anche voi potrete accedere a questo incredibile documento,
vero patrimonio dell'umanità: la mappa
del rischio terrorismo nel mondo, utilizzabile per
programmare le vostre vacanze, o per stipulare - naturalmente
- una bella assicurazione con la compagnia che gestisce
il sito web in questione.
Nel caso non abbiate tempo, ve lo anticipo io: in Groenlandia
siete al sicuro. In Italia mica tanto e c'è pure
rischio di incontrare qualche comunista. In Iraq va un po'
peggio.
Nel Laos, invece, tutto tranquillo. Fino a che non mettete
per sbaglio il piede su una vecchia mina. |
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Come d'abitudine, ecco un po' di rassegna stampa
raccolta a zonzo sul web che mi sono via via appuntato nelle
ultime settimane. Al solito viaggio in ritardo, così
faccio di tutte l'erbe un fascio: tanto, sempre di orizzontintorno
si parla.
Il nostro giro di oggi parte dalla Corea del Nord con questa
interessante testimonianza da Pyongyang e dintorni. Nulla
di nuovo sotto il sol levante nordcoreano, ma ogni tanto
qualcuno fa bene a ricordarlo, mentre gli occhi mediatici
sono sempre orientati altrove.
E a proposito di occhi altrove, il sempre aggiornatissimo
Pfaal infila due begli interventi, aprendo una finestra
sul Dagestan e mettendo qualche
puntino sulle "i" a proposito di quanto
si legge questi giorni sui nostri giornali in tema di Francia
e accordi di Schengen. C'è anche una nota sulla situazione
in Uzbekistan.
Dall'Asia Centrale al Tibet. Tre anni fa vi raccontavamo
dei lavori sull'asse ferroviario Golmud - Lhasa. Adesso
sembra che il progetto sia ormai prossimo al suo sciagurato
capolinea. Peraltro, il soggetto è ampiamente
trattato sul web: non mi sono segnato altri articoli in
particolare, ma se volete approfondire il tema potete iniziare
dall'Associazione
Italia-Tibet.
Questo
articolo, comparso anche su altri giornali, lo conoscete
probabilmente già in tanti. Sta di fatto che è
interessante: il tema degli aiuti all'Africa è sempre
un po' spinoso e meriterebbe un bel po' di approfondimento
da parte di tutti i soggetti attivi, cioè noi.
Se a questo punto qualcuno di voi inizia a pensare che le
mie fonti siano un po' monotone, date un'occhiata a questa:
si parla di Mongolia, per la cronaca. A rigor del vero,
la segnalazione mi è arrivata dalla mia dolce metà. |
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Mi è venuto in mente all'improvviso: tre anni fa,
proprio a quest'ora, stavamo scaricando i nostri zaini al
campo base dell'Everest.
Piovigginava, e la valle di Rongphu scompariva dentro a
un muro di nuvole monsoniche che solo a tratti lasciavano
intuire la parete nord della montagna più alta della
Terra.
L'aria sottile e pungente dei cinquemila metri ci si appiccicava
addosso, umida, come le coperte del lodge nel quale ci preparavamo
a trascorrere i giorni successivi.
Ero in paradiso. E non avevo altro spazio che non fosse
per la mia commozione nel trovarmi nel luogo che più
di ogni altro al mondo avevo sognato per una vita intera.
Molto di me stesso è rimasto laggiù, e non
è mai più tornato.
...Ma non era questo ciò che volevo bloggare. La
seconda settimana a Maranello è ormai alle spalle
e anche questa volta ho portato con me qualche pezzo della
mia nuova esistenza emiliana. A partire dal cancello che
varco ogni mattina, davanti al quale sostano spesso carovane
di turisti incuriositi:
Che poi, uno potrebbe anche credere che Maranello sia un posto
come mille altri. Beh, mica tanto, credetemi. Per dire: non
è che nel centro di Kragujevac vi possa capitare di
trovare il cofano di una Zastava in mezzo ad un'aiuola...
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In una piazza
di Maranello...
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Inizio a credere che possedere un telefonino in grado di scattare
fotografie non sia poi così male... |
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L'avevamo programmata da settimane. Per me sarebbe stato
il ritorno su un quattromila dopo ben otto anni. Ero rientrato
apposta da Maranello a metà settimana per ripartire
oggi alla volta del Vallese. Ancora ieri pomeriggio non
volevo arrendermi all'idea. Avevo tirato fuori i ramponi,
speso un buon quarto d'ora a regolare le viti sugli scarponi
da ghiaccio, a stringere i bulloni della piccozza con il
manico corto, la mia preferita.
Ero andato a fare la spesa, la solita di sempre: molto da
bere, pane quadrato, buste di speck e salame. Non avevo
trovato le barrette di Ovomaltina, le mie preferite e avevo
dovuto ripiegare sui Kinder Cereali, maledicendo il supermercato,
ché non è mica la stessa cosa andar su con
i Kinder e noi collezionisti di aria sottile siamo tutti
un po' superstiziosi, abbiamo i nostri riti, la nostra maglietta
preferita, quel cordino ormai in pezzi al quale non rinunciamo
mai.
La notte al rifugio era prenotata, l'appuntamento con gli
altri fissato.
Il bollettino meteo svizzero non prometteva nulla di buono
già dal primo mattino. Avevo trascorso la giornata
a guardare la grandine disfare le fronde degli alberi qua
attorno, i ramponi - pronti - appoggiati in un angolo. All'orizzonte,
nero. Nero. Nero. Niente Grigna, men che meno il Monte Rosa.
Né certo la Weissmies, che da casa nostra si vede,
se sai dov'è.
Io lo so. A destra del Monte Rosa, oltre le cime del Mischabel.
Dal rifugio, mi sarebbe apparsa così:
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La Weissmies,
fotografata dall'Hohsaas
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Ieri sera decidiamo di rimandare la partenza di un giorno,
al sabato, e di aspettare quindi il bollettino di questa mattina.
Poi quello di questa sera. E infine mi telefona Enrico: annulliamo
tutto, le previsioni sono pessime fino a domenica. Le avevo
appena viste anche io. Nessuna speranza, weekend andato. In
più la beffa, poiché sembra che da lunedì
le condizioni tendano a deciso miglioramento.
Rimetto il libretto con la descrizione della via di salita
al suo posto in libreria. Ho come il sospetto che anche quest'anno
la mia stagione finisca qui, a guardar fuori dalla finestra
la pioggia che lava la strada. E mi assale una tristezza infinita. |
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Il primo giorno di scuola non è come tutti gli altri.
Soprattutto se ad attenderti c'è una palazzina di
mattoni rossi, con un cancello rosso, attraverso il quale
passa un sacco di gente vestita di rosso.
Varchi la soglia e vedi rosso un po' dappertutto. Le poltrone
sono rosse, alcune pareti sono rosse, le lavagne punta spilli
sono rosse.
Nel parcheggio ci sono molte macchine rosse, solo qualcuna
è gialla, o blu, o addirittura grigia. Nell'aria,
a tratti, un ruggito in sottofondo che accompagna il tuo
girovagare per i viali interni. Qua è là pezzi
di storia, anche recente: esposto in un corridoio, il motore
- esagerato! - che ha vinto il mondiale costruttori nel
2000; nel piazzale interno, la macchina di Schumacher del
2002; nell'ufficio del mio interlocutore, il volante di
Schumacher del 2001.
All'entrata, anche a me danno qualcosa di rosso. Mi secca
un po' doverglielo restituire.
Mica male come viaggio... |
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Sono state settimane piuttosto turbolente. Ho girato come
una trottola a caccia
di lavoro, ho accumulato chilometri e idee, riempito
l'agenda di numeri di telefono e promemoria. Adesso la to-do
list sta rientrando ad una dimensione accettabile e
si inizia a vedere anche qualche risultato.
Ad esempio: il prossimo viaggio è pronto. Dunque,
ripartiamo - e di conseguenza anche Orizzontintorno (a Ferragosto,
stay tuned).
Ad esempio: dopo sette mesi tondi tondi abbiamo finalmente
terminato di svuotare i 250
scatoloni. Ne erano rimasti ancora quattro ormai
mimetizzati fra l'arredamento di casa: c'è voluto
un intero fine settimana per trovare una collocazione a
tutte le cianfrusaglie che contenevano. Uno degli scatoloni
superstiti, peraltro, era ancora chiuso dal trasloco precedente:
stiamo parlando del 2001, per intenderci...
Ad esempio: nel frattempo mi sono anche trovato un lavoro
per un paio di mesi. Sono riuscito a rimanere disoccupato
un solo giorno e da domani sarò a Maranello. Sì,
proprio lì. Ciò non toglie che ho sempre le
antenne dritte, che passati i due mesi mi rimangono almeno
vent'anni di lavoro da coprire.
Certo, non ho ancora messo in linea le foto della nostra
zingarata in Oberland.
E chissà quando lo farò, di questo passo.
Certo, dovrei preparare la conferenza per Immagimondo,
che ci vedrà protagonisti il prossimo ottobre (dettagli
a tempo debito), ma come faccio a portarmi a Maranello tutta
l'attrezzatura per il montaggio?
Certo, dovrei sistemare ancora un po' di dettagli fra queste
pagine e finire di montare i videoclip che ho in cantiere
da mesi, ma questo è ormai ai confini della realtà.
Una cosa, però, voglio farla: dare qualche risposta
ad alcuni di voi capitati da queste parti ultimamente. Dunque:
- Marjuana in Marocco: a) non siamo ancora stati
in Marocco; b) amico, non hai visto Marrakesh Express?
- Tacchi spillo microgonne trasparenti: ora, è
certamente possibile che fra le oltre duemila pagine di
Orizzontintorno le parole "tacchi", "spillo",
"microgonne" e "trasparenti" siano citate
almeno una volta, ma devi sapere che Google non è
molto forte a contestualizzare i contenuti. Mi spiace.
- Foto ragazze asiatiche: qualcuna ce n'è.
Non ha le tette di fuori però. Più probabilmente,
ha fame.
- Sexy shop Chiasso: ancora tu? Ma quanto è
che lo cerchi questo benedetto sexy shop? Se proprio a Chiasso
non c'è, fatti un giro a Como, no? Comunque io non
lo so dov'è, non so che farci.
- Minsk night life: credimi, è davvero scarsina.
Meglio di Pyongyang probabilmente, ma certo non all'altezza
di quella di Phnom Phen.
- Rami legno tipo corallo: ma uscire la sera con
una donna, o farsi una birra con gli amici, non è
meglio?
- Gastroenterite acuta: guarda, da qualche parte
devo avere ancora la ricetta che mi fece il medico di Kathmandu.
E' potente e funziona, ma la polverina arancione sapeva
di olio motore. Disgustosa. |
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Cosa c'è di meglio, dopo essere franati a letto
alle tre di notte, che alzarsi di prima mattina per andare
in Grigna ad allenarsi un po', in vista di un certo progettino
che ho in cantiere per la prossima settimana?
Simulare 15 kg di zaino portandosi Leonardo. Che, per la
cronaca, ama moltissimo andare in montagna con il suo papà,
sbriciolargli i fiorellini fra i capelli, tirargli le orecchie,
dargli qualche pugnetto sulla testa per avvertirlo quando
vede delle cose interessanti, spiaccicargli sul collo i
suoi biscottini, grattargli le spalle e mangiare polenta
e coniglio al rifugio.
Tutte cose che peraltro il mio zaino di solito non fa. Ma
volete mettere?
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Pete Townshend non ruota quasi più il braccio e
Roger Daltrey non riesce più a far volare il microfono
afferrandolo per il filo, ma io non vedo altre differenze
fra i ragazzacci che trentasei anni fa incendiarono il pubblico
di Woodstock e i due simpatici nonni che stasera mi hanno
ancora una volta dato i brividi sul palco del Live8.
E potrei anche non aggiungere altro, a meno di non voler
riprendere il post
di Giulia
ed estenderlo di altre sei o sette pagine.
Ma una curiosità mi rimane e stanotte non ci dormo.
Ditemi, voi che a Roma c'eravate: ho capito male o, mentre
io e probabilmente altri quattro billion di esseri umani
avevamo le lacrime agli occhi guardando Gilmour sorridere
a Mason e Waters commuoversi fra i vecchi compagni, voi
vi stavate davvero sciroppando Venditti?
N.B. per Giulia: mi meraviglio di te. Bastava avere un paio
di portatili collegati in banda larga e non solo ti risparmiavi
la sciagura di assistere alla performance dei Gemelli Diversi
(condoglianze, ti sono vicino), ma potevi saltare a tuo
piacimento fra tutti i sei palcoscenici senza incappare,
fra l'altro, in un nanosecondo di pubblicità. |
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