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Un anno
dopo. Alla faccia delle solite premesse,
mi affido alla proverbiale precisione millimetrica del meteo
svizzero: tempo assai variabile per tutto il weekend
e forti temporali in quota, ma le prime ore del mattino
- almeno fino a mezzogiorno - dovrebbero consentire un tentativo,
a patto di darsi una mossa.
Insomma, dopo nove anni di assenza dai miei 4000,
pare giunta l'ora di andare a caccia del mio
ventiduesimo centro. Non si rimanda più.
Ed è così che sabato mattina Bruno ed io ci
mettiamo in viaggio verso Saas Grund, valicando il Sempione
sotto un cielo più plumbeo che amichevole.
Ora, ci sono dei segnali nella vita di un uomo interpretabili
a proprio piacimento, ma personalmente, se volessi essere
obiettivo, dovrei cominciare a pensare seriamente di rivolgermi
ad un istituto. Perché saranno anche nove anni che
non vado a cercar guai in alta quota, ma in montagna, che
diàmine, per quanto poco continuo ad andarci, ogni
tanto.
Così, non starò a raccontarvi né la
mia faccia, né quella di Bruno, né ciò
che è uscito dalla mia bocca quando, dopo aver parcheggiato
la macchina davanti alla funiva dello Hohsaas ed accingendomi
al consueto rito della vestizione - che, tradotto per i
non addetti, significa a) togliersi la t-shirt e i pantaloncini
per indossare sei strati di inutili e costosissimi tessuti
termici dai nomi improponibili in mezzo ad un piazzale d'asfalto
a cinquantotto gradi, cercando di ignorare alcuni passanti
che stanno segnalando la vostra presenza in mutande ai vigili
urbani; b) caricarsi sulle spalle uno zaino pieno di altrettanto
inutile ferraglia, pesante come il meteorite di Tunguska
- dicevo: nell'accingermi al rito della vestizione, mi rendo
conto all'improvviso di essermi dimenticato a casa una sola
cosa: la GIACCA A VENTO! Ho con me solo un paio di magliettine
a maniche corte ed un pile sottile. E dovrei risalire un
ghiacciaio a quattromila metri...
Nemmeno vi racconterò quanto mi sia costato, quindi,
comprarmi una giacca nuova nell'unico negozio aperto di
Saas Grund, località alpina fra le più esclusive
della Svizzera, in balìa della commessa Zurbriggen
perfettamente conscia di avermi in pugno e di potermi svenare
a suo piacimento.
E infine sorvolerò anche sul particolare che di tutta
la mia paleozoica attrezzatura l'unico oggetto che NON avevo
alcun bisogno di cambiare e che mi andava benissimo era
proprio la mia preziosa ed amata giacca a vento gialla,
che altre volte avete potuto vedere in onda su questo blog.
Insomma, comunque vada, alla fine questo weekend mi costerà
come una settimana bianca a Gstaad.
Saliti ai 3.098 metri della Hohsaas, posso constatare che
quello che si dice sulla situazione attuale dei ghiacciai
è vero: rispetto a dieci anni fa il il ritiro delle
calotte, almeno in questa zona che conosco bene, è
evidente ed è andato di pari passo con l'aprirsi
di un gran numero di brutti crepacci trasversali. Constato
anche che i rifugi alpini non sono più quelli di
una volta: alla Hohsaas c'è l'acqua calda, la doccia,
i cessi sono più belli di quelli di un albergo a
tre stelle - standard svizzero - e si possono anche vedere
i mondiali di calcio su un 32" ultrapiatto.
Quello che non è cambiato è il caldo torrido
delle camerate di notte e il solito vicino di branda che
russa come un Tornado delle frecce tricolori.
Nel pomeriggio il gestore del rifugio ci fa il quadro: "Tomani
mattina tempo pello. Se antate alla Weissmies, sfeglia alle
quattro e trenta, colazione alle zinque, massimo mezzociorno
tofete essere ti ritorno. Poi arrifa fiolento temporale".
E infatti tiriamo sera davanti a una birra immersi nelle
nuvole nere, al centro di un bel temporale che, quassù
a tremila, si fa sentire non poco e scarica anche una bella
grandinata. Questo, peraltro, non impedisce ad un buon numero
di buontemponi svizzeri di arrivare al rifugio in serata,
fradici zuppi, dopo essere saliti a piedi dal fondovalle,
fregandosene tranquillamente della funivia, dei lampi, dei
tuoni e dell'acqua a scrosci. E del freddo: tutti in t-shirt,
naturalmente.
Cerco di darmi un tono gettando la mia giacca a vento nuova,
con ancora attaccato il biglietto della funivia, in fondo
a un crepaccio.
Fra un temporale e l'altro la parete NO della Weissmies,
teatro del nostro itinerario dell'indomani, ci regala anche
qualche schiarita: a guardarsi attorno, comunque, non c'è
affatto di che ben sperare.
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La parete
NO della Weissmies con il temporale in agguato
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La solita notte in bianco mi ricorda che io, nelle prime ventiquattr'ore
in altitudine, non chiudo mai occhio. Devo ahimè anche
rilevare che gli anni mi hanno abbassato la quota insonnia:
una volta accusavo sopra i tremilasei, adesso evidentemente
mi bastano tremila metri per passare le ore a contar pecore.
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Atto secondo: ovvero, dei giapponesi
e della leggenda urbana dei giapponesi che non vanno mai
in ferie, dei giapponesi e dei bambini (reloaded), dei giapponesi
e del ma che tempo fa in Giappone.
Riassunto delle puntate precedenti: stiamo seguendo le peripezie
dei nostri eroi, i viaggiatori indipendenti, alle prese
con l'organizzazione indipendente di un fichissimo viaggio
indipendente in Giappone (paese indipendente).
Uno dice: oh, ma i giap ci vanno al mare? No perché
noi si vorrebbe anche andare al mare per portarci Leonardo,
ché mica possiamo sbatterlo in giro per un mese di
qua e di là. Massì dai, ci sono quelle isolette
in mezzo al Pacifico, tutte fighe tipo atolli polinesiani
ma con in più i servizi giap, che anche i bungalow
di paglia c'hanno l'LCD a trecento pollici, la vasca da
bagno con barriera corallina sintetica e le noci di cocco
con apertura a scatto e cannuccia elettronica a dosaggio
controllato. Dai, andiamo a fare gli indipendenti in mezzo
al Pacifico, che poi anche la bandierina sul planisfero
di casa ci sta bene e fa pure snob.
Uno dice: oh, ma non è che poi agosto non è
stagione, sai com'è, lì nel Pacifico, magari
ci sono i tifoni, mannò, maddai, lo dice anche la
Lonli, la stagione dei tifoni va da settembre ad
ottobre, e lo dicono anche Paesi
Online e Giapponemania.
A proposito, ormai tutti i siti web più fighi c'hanno
la scheda "quando andare"... Hai visto
quella del Corriere?
E quella della EDT?
E quella di Yahoo?
Come dici? Ah, è vero... Aspetta, aspetta...
Sono tutte identiche, parola per parola. Se le sono copiate
fra di loro.
Uno dice: sì, ma dicono tutti che quella è
proprio l'unica settimana dell'anno in cui tutto il Giappone
va in ferie, forse sarà meglio che prenotiamo e che
ci diamo pure una mossa, sai mai. Maddai, prenotare il mare
in Giappone, manco fosse Bibione a Ferragosto, vabbè,
se proprio insisti, ma sai che sbattimento provare a prenotare
su Internet, già è un casino con l'hotel a
Tokyo. ..
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Stavo facendo la riflessione che segue.
Questa mattina (come da
un paio di settimane a questa parte), ho inforcato
la bicicletta e mi sono sparato un
giretto di quelli che facevo da ragazzo: 41 chilometri,
metà dei quali di salita a tratti anche piuttosto
tirata. Ci ho messo due ore e venti praticamente senza sosta e, per dirvela tutta,
sono rientrato a casa piuttosto soddisfatto dei miei progressi:
tutto sommato potevo tirarne ancora una decina (e infatti
nel pomeriggio mi sono caricato Leonardo sul seggiolino
e ho fatto cifra tonda).
Ma il dato di fatto non è questo.
La riflessione è che ho percorso una distanza di
un chilometro inferiore a quella della maratona, impiegando
un tempo leggermente superiore a quello dei campioni della
specialità.
Come a dire che un atleta allenato impiega meno tempo
a fare di corsa quello che io ho fatto in bicicletta.
Mi sembra un'ottima ragione per tornare a non fare un tubo
e ad ingozzarmi di robaccia fritta e bevande gassate.
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Ora, quale tipo di espressione gergale dovrebbe usare un
uomo di mezz'età e discreta educazione che, dopo
nove anni, sta tentando da un mese di infilare il suo ventiduesimo
4000 e che per la quarta settimana consecutiva si
ritrova davanti a questo identico bollettino meteo?
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Atto primo: ovvero, dei giapponesi
e delle agenzie di viaggio giapponesi, dei giapponesi e
dei bambini, dei giapponesi e del non chiedere mai informazioni
ai giapponesi.
Uno dice: andiamo in Giappone perché è un
viaggio facile, ché abbiamo il bambino. Che ti credi?
E' una vita che facciamo i viaggiatori indipendenti, noi.
Abbiamo attraversato il Torugart Pass da soli, noi. Il Sol
Levante nemmeno quasi lo consideriamo un viaggio, noi. Sai
che ci fa il Sol Levante, a noi.
Dice, ma sai il giapponese? Ma chissenefrega del giapponese,
ho discusso di storia romana con un venditore siriano di
musicassette taroccate, io, e di motori diesel con un autista
mongolo. Sai che mi fa il giapponese, a me.
Uno dice anche, poi però: sì, maddai, abbiamo
il piccolino con noi, almeno un micropiano di viaggio ed
un paio di rapide prenotazioni facciamole, ché non
si sa mai. Massì, almeno poi non stiamo a perdere
troppo tempo laggiù a sbatterci. Ok, cerchiamo l'albergo
a Tokyo, va'.
Così va a finire che uno, poi, dice: seee, vabbè,
che sbattimento però stare a prenotare da soli un
albergo a Tokyo. Cioè, te la immagini Tokyo? Che
già a capire cos'è che a Tokyo chiamino centro
ci vuole un rabdomante. Ché tu ti credi che faccia
ridere atterarre alla Malpensa e dire che sei a Milano,
finché non atterri a Narita e scopri che i treni
proiettile giapponesi, quelli che viaggiano a trecento
all'ora, impiegano un'ora per andare a Tokyo. Ché
Narita e Tokyo le distingui sulla scala di un planisfero.
Ché per forza l'Hilton di Narita Airport costa come
la pensione Mariuccia a Gabicce mare: prova a vedere quanto
costa il Park Hyatt in centro. Ché tu butti dentro
a Google "hotel Tokyo" e viene fuori l'enciclopedia
britannica, solo che è scritta come un fumetto giapponese
e vieni travolto da uno tsunami di ideogrammi che nemmeno
dopo un'indigestione di sushi, e allora com'era quella storia
che a te il giapponese? Che poi i giap le mappe le disegnano
come i manga,
per cui prova a capirci qualcosa, se ci riesci, di dov'è
'sto belìn di albergo che stai provando a prenotare
da un'ora.
Sai che c'è? Quasi quasi chiedo ad un'agen... agenz...
gasp... gosgh... aaaagghhh... GULP... agenz... AGENZIA!
Cough cough... L'ho detto. Sob. Ecco. [nuvoletta nera
sopra la testa]
- Buongiorno.
- BuongioLno.
- Vorrei pRenotaRe un alberRgo a Tokyo. [che poi, diciamolo,
la mia erre fa schifo, ma almeno non parlo com Ten, quello
che va in giro con Nick Carter e Patsy, che se avete meno
di quarant'anni lasciamo perdere, va'...]
- Sì, abbiamo albeLgo a Tokyo.
Uno. Che gioLni?
- Dal 6 agosto all'11 agosto.
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Ed eccoci alla consueta rassegna stampa di Orizzontintorno,
che ormai da un po' di tempo mancava da questo blog. Come
sempre, buona parte delle segnalazioni mi arrivano da Francesco,
ma anche il contributo della gentil consorte si fa sentire.
Qualche link è ormai vecchiotto, ma al solito ciò
che conta è il contenuto. E a proposito: càpito
casualmente proprio a ruota del fondo
di Gianni Riotta. Del quale condivido ogni parola
- anche perché, tra parentesi, non esistono i blogger
in quanto categoria.
Tanto per cambiare iniziamo con la Cina, ma non solo: la
BBC ci fa sapere che la censura
sul web non è una prerogativa solamente dei
nostri amici di Pechino, che peraltro continuano a praticarla
alla grande con la pacifica collaborazione delle grandi
e democratiche compagnie occidentali. Quello però
che l'articolo della BBC non dice è che anche in
Italia la censura sul web viene tranquillamente
applicata grazie alla solita devastante disinformazione
e senza che i Media osino occuparsi un po' seriamente della
questione, magari al posto di un articoletto sulla prova
costume da bagno. Vale la pena osservare che, almeno nell'applicazione
del principio in quanto tale, siamo in buona compagnia,
con la Corea del Nord ed il Turkmenistan. Tanto per dire.
E per rimanere sempre in Cina, il Mail on Sunday ha pubblicato
un interessante reportage sulla vita nelle fabbriche dove
vengono prodotti gli iPod - perché lo sapevate, vero,
che il vostro oggettino designed in California è
prodotto in Cina. L'articolo non è disponibile on
line, ma Macworld
e il Guardian
Unlimited ne fanno un sunto quanto basta.
Ancora Cina e ancora BBC news: della ferrovia del Tibet
si è parlato a lungo in questo blog. Il completamento
dell'opera è ormai una triste
realtà. Il mio pensiero in merito, romanticamente
filtrato da qualunque opinione di tutt'altro profilo io
abbia già espresso abbondantemente sulla questione,
rimane questo.
Anche del Turkmenistan si è già dissertato
fra queste pagine. Vorrei ricordare in proposito un
post al quale sono particolarmente affezionato.
A quanto segnala il Corrierone, le comiche
continuano, naturalmente nell'indifferenza globale
dell'altra metà del cielo che invece continua a sparacchiare
in Iraq ed Afghanistan. E già, ma lì ci sono
i cattivoni, mentre in Turkmenistan ci sono i nostri.
E visto che siamo dalle parti degli Stan, vi segnalo
questo
interessante articolo della BBC che a distanza di
un anno ritorna sulla rivolta in Kyrgyzstan.
Ce n'è anche per l'Australia, ebbene sì. Date
un po' un'occhiata a questi due articoli del Corriere on
line: prima questo,
poi questo.
Recentissimo invece questo pezzo
sulla Birmania, il primo di un reportage completo
che verrà pubblicato da BBC news.
Io non amo particolarmente né Beppe Grillo (ultima
versione), né il suo
blog. Intendiamoci: è in assoluto un bene
che in questo paese circolino (ancora) opinioni forti come
le sue. Sarebbe altrettanto bene informarsi meglio prima
di cadere nella facile demagogia dei comici improvvisatisi
santoni (tipo la bufala del carburante dall'olio di colza,
per intenderci). In altre parole: come è stato già
sottolineato da altri, se abbiamo bisogno di un comico come
nostro portavoce, siamo messi davvero male.
Ma, a parte questo, è proprio dal blog di Beppe Grillo
che arrivano queste due segnalazioni, una
e due,
sull'ennesima polemica che ha visto coinvolto Gino Strada
ed Emergency. Fra parentesi, prima o poi un post su Emergency
lo faccio anche io (che comunque - a scanso di equivoci
- rimango un sostenitore di Strada, pur se forse, ultimamente,
con qualche ma).
E poi: voi lo sapevate, vero, che esiste la Transnistria,
altrimenti detta Transdniester. Noi sì, e infatti
l'abbiamo già segnata sul taccuino. Abbiate fede,
che prima o poi vi bloggo anche da lì.
Infine: visto che si è parlato di Transdniester e
che di questi tempi va
di moda occuparsi di Seborga,
salto (quasi) di palo in frasca. Le due questioni, pur molto
differenti fra loro, danno lo spunto per approfondire un
tema molto interessante di diritto internazionale, ossia:
cos'è che determina ed è la base affinché
sia riconosciuta ad un territorio qualunque la condizione
di Stato?
Senza voler entrare nel merito (ma mi piacerebbe che qualche
lettore esperto in materia contribuisse con un commento
al dibattito), se vi interessa il tema, potete iniziare da
Wikipedia occupandovi di micronazioni
e di Sealand.
Credetemi: è interessante. A proposito: Wikipedia,
su Seborga, la
pensa così. |
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Dalla brochure delle Japan Railways, cito: "Japan
has the most convenient (*) and efficient railway network.
JR Group railways are proud of their international reputation
for frequent service, punctuality, high speed and safety.
Frequent: 26.000 departures a day (**). Punctual: JR
trains are so reliable you can use them to set your watch.
Fast: these trains are famous throughout the world for
their fast speed of 300 km per hour. Comfort: modern,
clean, complete facilities for comfortable travel in today's
age."
Praticamente come Trenitalia.
(*) Sul concetto di "conveniente" avrei qualcosa
da dire...
(**) Per dire: sull'asse Tokyo-Kyoto, più o meno la
distanza Milano-Roma, ci sono cento treni al giorno che impiegano
una media di tre ore (i più rapidi due ore e mezza).
Avete presente la TAV, no? |
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Ieri ho comprato una bicicletta
(*).
Oggi ho pedalato per venti chilometri.
Domani (forse) riprenderò a camminare.
(*) In realtà me l'ha regalata
Emanuela. Erano ventiquattro anni che volevo una bicicletta,
da quando mi rubarono la mia gloriosa bici da corsa: avevo
diciassette anni. Da allora sono salito su una bicicletta
solo due volte: un'ora nel 2001 in Thailandia e qualche
pedalata in giro per La Digue, nel 2003. Riesco ancora a
pedalare senza le rotelline. Sono felice come un bambino. |
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A dire il vero, per quanto mi ci sia messo di buona volontà,
due righe in merito scritte come si deve proprio non riesco
a buttarle giù, cosicché dovrei forse smentire
la mia indimenticata professoressa di italiano del liceo
che a mia mamma diceva sempre che io sarei in grado di fare
un tema anche sull'elenco telefonico. Fra parentesi, non
è affatto vero. Infatti bucai il tema di maturità:
non avevo nulla da dire su alcuno dei cinque titoli possibili.
E' che in questo capitolo che ho appena letto di "In
Afghanistan" ("The places in between")
Rory
Stewart ha già detto tutto quel che credo
ci sia da dire, e qualunque commento mi suona irrimediabilmente
stonato e fuori luogo.
Magari un'altra volta, eh?
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[...] Ormai in Afghanistan avevo
una mezza dozzina di amici che lavoravano nelle ambasciate,
nei gruppi di esperti, nelle agenzie internazionali
per lo sviluppo, alle Nazioni Unite e al governo afghano,
e che dirigevano progetti da milioni di dollari. Un
anno prima erano stati in Kosovo o a Timor Est, un anno
dopo sarebbero stati trasferiti in Iraq, o in uffici
di New York o di Washington.
Il loro obiettivo era (per citare la Missione di aiuto
all'Afghanistan delle Nazioni Unite) "la creazione
di un governo centralizzato, ad ampia base e multietnico,
impegnato nella promozione della democrazia, dei diritti
umani e del principio di legalità". Lavoravano
dalle dodici alle quattordici ore al giorno redigendo
documenti relativi a iniziative riccamente finanziate
sulla "democratizzazione", la "capacità
di miglioramento", la "differenza di genere",
lo "sviluppo sostenibile", la "formazione
professionale" o i "problemi di tutela".
Per la maggior parte erano sulla trentina, con almeno
due lauree, spesso in Diritto internazionale, Economia
o Sviluppo. Provenivano da ambienti borghesi di paesi
occidentali, e di sera cenavano tra di loro e si scambiavano
aneddoti sulla corruzione nel governo e l'incompetenza
delle Nazioni Unite. Raramente uscivano da Kabul sui
loro fuoristrada perché gli era stato vietato
dai loro consiglieri per la sicurezza.
C'erano persone, come i due funzionari politici di Chakhcharan,
esperte e ben informate sulle condizioni di vita nelle
aree rurali dell'Afghanistan, ma erano a malapena una
cinquantina su molte migliaia. La maggior parte degli
amministratori non sapeva quasi nulla dei villaggi in
cui viveva il novanta per cento della popolazione afghana.
Provenivano da paesi postmoderni, laici, globalizzati,
di tradizione liberale nelle leggi e nel governo. Per
loro era naturale avviare progetti su piani regolatori,
diritti delle donne e cablaggi in fibra ottica, parlare
di processi trasparenti, lineari e responsabili, di
tolleranza e società civile, e riferirsi a un
popolo "che desidera la pace a ogni costo e comprende
la necessità di avere un governo centrale e multietnico".
Ma che cosa capivano loro dei processi mentali della
moglie di Sayyid Kerbalahi, che in quarant'anni non
si era mai allontanata di più di cinque chilometri
da casa sua? O del dottor Habibullah, il veterinario,
che si portava in giro il suo fucile con la stessa disinvoltura
con cui loro portavano la ventiquattrore? Gli abitanti
dei villaggi che avevo incontrato erano in maggioranza
analfabeti, ben lungi dall'avere elettricità
o televisione, sapevano ben poco del mondo esterno e
avevano opinioni molto particolari sull'islam e sul
concetto di etnia. La gente di Kamenj comprendeva il
potere politico dal punto di vista del suo signore feudale
Haji Moshin Khan. A Herat Ismail Khan voleva un ordine
sociale basato sulla politica islamica dell'Iran. Gli
hazara come Ali non sopportavano l'idea di un governo
centrale perché lo associavano al dominio di
altri gruppi etnici e alle sofferenze patite sotto i
talebani. Queste differenze tra gruppi etnici erano
profonde, sfuggenti e molto difficili da risolvere.
In alcune aree, la democrazia del villaggio, i problemi
di disparità tra i sessi e la centralizzazione
sarebbero stati concetti difficili da far passare.
I loro amministratori non avevano il tempo, le strutture
o le risorse per uno studio serio su una cultura che
non conoscevano. Giustificavano la propria mancanza
di conoscenza e di esperienza concentrandosi sulla povertà
e insinuando che non esistessero drammatiche differenze
culturali. Si comportavano come se gli abitanti dei
villaggi fossero interessati a tutte le priorità
delle organizzazioni internazionali, anche quando erano
contraddittorie.
In un seminario a Kabul udii per la prima volta Mary
Robinson, alto commissario delle Nazioni Unite per i
Diritti umani, dire: "E' da venticinque anni che
gli afghani lottano per i diritti umani. Non c'è
bisogno di spiegar loro quali siano". In seguito
il capo di un'importante agenzia per l'alimentazione
aggiunse in privato: "Agli abitanti dei villaggi
non importano i diritti umani. Sono come tutti i poveri
del mondo. Tutto quello di cui si preoccupano è
da dove arriverà il loro prossimo pasto".
Al che, il capo di una organizzazione non governativa
afghana che si occupava di terapia rispose: "L'unica
cosa che bisogna sapere di queste persone è che
soffrono di disturbi da stress post-traumatico".
Le differenze tra gli amministratori stranieri e un
hazara come Ali andavano ben oltre la sua mancanza di
cibo. Raramente Ali si preoccupava da dove provenisse
il suo pasto successivo. Se definiva se stesso era principalmente
in quanto musulmano e hazara, non in quanto afghano
affamato. Le diverse correnti dell'islamismo, i punti
di vista sulle etnie, il governo, i metodi appropriati
per la risoluzione dei conflitti (inclusi i conflitti
armati) e l'esperienza di venticinque anni di guerra
differivano molto da una regione all'altra. Persino
all'interno dell'area coperta in una settimana di cammino,
mi imbattei in zone in cui i beg locali erano stati
fatti cadere da una rivoluzione sociale finanziata dall'Iran,
altre in cui le strutture feudali erano ancora al loro
posto, e altre ancora che avevano subito la violenza
dei talebani, oltre a zone in cui gli abitanti dei villaggi
usavano violenza gli uni sugli altri. Gli amministratori
non erano in grado di dedicare il tempo, l'immaginazione
e l'ostinazione necessarie a comprendere queste diverse
esperienze. Pertanto era quasi impossibile cambiare
la società afghana nel modo in cui volevano cambiarla.
I critici hanno accusato di neocolonialismo questa nuova
genia di amministratori. In realtà il loro approccio
non è quello dei funzionari coloniali del XIX
secolo. Gli amministratori coloniali forse sono stati
razzisti e sfruttatori, ma perlomeno si sono dedicati
con serietà al compito di comprendere le persone
che stavano governando. Reclutavano persone disposte
a trascorrere tutta la loro carriera in province pericolose
di uno stato sconosciuto. Investivano denaro nell'insegnamento
della lingua locale agli amministratori e agli ufficiali
militari. Fondavano veri e propri ministeri, addestravano
una élite locale e portavano avanti innumerevoli
studi accademici sui loro soggetti attraverso istituti
e musei, reali società geografiche e reali giardini
botanici. Mantenevano in pareggio il bilancio locale
e generavano entrate fiscali perché, in caso
contrario, difficilmente il governo della madrepatria
li avrebbe tolti dai pasticci. Se fallivano nel buon
governo la popolazione si ribellava.
Gli esperti che intervengono dopo i conflitti hanno
acquisito il prestigio senza lo sforzo o lo stigma dell'imperialismo.
La negazione implicita delle differenze tra culture
è il nuovo marchio globale della mediazione internazionale.
La loro politica fallisce ma nessuno ci bada. Non ci
sono organismi di controllo credibili e non c'è
nessuno che si prenda una responsabilità formale.
I singoli funzionari non stanno mai nello stesso posto
e raramente abbastanza a lungo in un'organizzazione
per essere valutati in modo adeguato. L'impresa coloniale
poteva essere giudicata dal grado di sicurezza o dalle
entrate che produceva, mentre i neocolonialisti non
hanno simili criteri sul risultato. In realtà
la loro inutilità li favorisce. Evitando ogni
seria azione di giudizio essi, a differenza dei loro
predecessori colonialisti, riescono a sfuggire a qualsiasi
accusa di razzismo, sfruttamento e oppressione.
Il fatto è, forse, che nessuno richiede più
di un'affascinante illusione di attività a favore
dei Paesi in via di sviluppo. Se gli amministratori
sanno poco dell'Afghanistan, la gente comune ne sa ancora
di meno, e pochi si preoccupano dei fallimenti politici
quando degli effetti si risente soltanto in Afghanistan.
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