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Capita anche che fra un aereo e l'altro uno riesca persino
ad andare nel weekend a trovare la famiglia al mare. Capita
che questo sia un anno un po' particolare, tipo il 2004
per intenderci, ché Carola ha solo quattro mesi e
il tempo di portarla in aria verrà più avanti.
Capita che anche Leonardo abbia bisogno di un secchiello
e una paletta, e pure di un paio di pistole ad acqua. Capita
che ci scappino un paio di bagni anche per me, che quasi
non mi ricordavo più nemmeno come fosse stare in
acqua.
Ed è vero che io detesti le spiagge e gli ombrelloni
come solo la tangenziale di Milano, ma anche no. Basta che
non ci sia nessuno. Peccato (come al solito) non avere la
macchina fotografica. Quella vera, intendo.
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Devo trovare il tempo di aggiornare l'archivio fotografico.
Lo so. Prima o poi lo faccio. Forse poi. Magari in vacanza.
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E comunque, dopo un mese di Harenda, per questa sera a Budapest mi sono concesso il Le Meridien. Come dire, va bene tutto, ma alla mia età quando ci vuole ci vuole.
P.S. Avrei un solo appunto per gli amici del Le Meridien: perché mai, a loro avviso, dovrei pagare 20 euro (!) per la connessione wi-fi ad Internet dalla camera quando (a) il collegamento con il cavo funziona benissimo, è più veloce e soprattutto è gratuito, e (b) il segnale del wi-fi pubblico, anch'esso gratuito, dalle camere si prende benissimo? |
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Quando è iniziata quest'avventura, ormai quasi dieci
mesi fa, sul mio tabellino personale contavo 188 voli per
circa 480 ore di volo, collezionate in venticinque anni
di viaggi. Oggi sono a quota (è il caso di dirlo)
260 voli per circa 560 ore trascorse in aria, il che significa
che in questi dieci mesi ho messo insieme più di
settanta voli, quasi una media di uno ogni quattro giorni.
Fra le altre cose, ho raggiunto il frequent flyer club della
Luxair con 51
voli, il Club Ulisse Alitalia e di questo passo
probabilmente scollinerò anche il Freccia Alata entro
ottobre. A pensarci, mi manca giusto il Senator della Lufthansa.
Per dire, questa settimana volo quattro volte in quattro
giorni.
Sto scrivendo questo post direttamente dall'aereo, in volo
da Warszawa a Milano, sorseggiando un prosecco e sgranocchiando
due noccioline. Oggi ci sono parecchie turbolenze. Quassù
il cielo è sgombro, ma sotto di noi, sull'Europa
Orientale, il tempo è decisamente brutto. Sono rilassato,
ho il mio pc, il prosecco è fresco al punto giusto
e finito questo post lavorerò un po', tanto il volo
dura un paio d'ore.
Domani pomeriggio riparto da Milano per Budapest: non ho
volato direttamente da Warszawa a Budapest perché
stasera a casa ci sono anche Emanuela e Carola. Così,
poiché non vedo la famiglia da ormai una decina di
giorni ché sono tutti al mare, ne approfitto per
passare anche io da Milano e dar loro un bacio, per poi
ripartire domani alla volta dell'Ungheria.
Perché scrivo questo?
La vita è davvero curiosa. Una volta, diciamo fino
a circa sette od otto anni fa, amavo volare. Poi un paio
di brutte disavventure fecero emergere all'improvviso quella
che evidentemente era una già latente ed inconscia
paura del volo. Una volta scoperchiata la pentola, la situazione
iniziò a precipitare (appunto...) e la paura a trasformarsi
in fobia accompagnata, in occasione di ogni volo, da tutte
le somatizzazioni del caso.
In questi ultimi anni la paura di volare aveva dunque iniziato
a condizionarmi parecchio, anche nelle mie scelte professionali.
Ho cominciato ad evitare l'aereo come la peste. Andavo a
Roma in treno, mi tenevo alla larga da trasferte internazionali
a meno dello stretto necessario, programmavo le vacanze
con il minor numero di voli possibili, e se vi chiedete
se abbia pensato di smettere definitivamente di volare,
sì, più di una volta.
Ricordo ancora quando siamo andati a Cipro,
due anni fa. Non dormii per due notti prima di prendere
il volo e feci tutta la vacanza sotto stress alla sola idea
di dover risalire sull'aereo per tornare a casa. Mal di
stomaco, panico. Fra me e me ero arrivato a ventilarmi l'ipotesi
di rientrare in nave.
Accadeva così, ogni volta che avevo in programma
di salire su un aereo: il giorno prefissato cadevo in una
sorta di mutismo autistico fin dal momento della sveglia.
Una specie di apnea continua. Non parlavo, mi isolavo completamente,
chiudevo gli occhi al momento del decollo e li riaprivo
solo dopo l'atterraggio. Cercavo di trascorrere i voli intercontinentali
il più possibile in dormiveglia. Di dormire davvero
comunque non se ne parlava proprio, di lasciare poi il posto,
ad esempio per andare in bagno, nemmeno. Di mangiare quasi
mai, o comunque pochissimo e il minimo indispensabile.
I peggiori erano i voli a medio raggio, soprattutto sul
mare. Se dovevo stare in aria solo un'ora contavo i minuti
uno ad uno e in fondo mi passava rapidamente. Sui lunghi
intercontinentali la stanchezza bene o male aveva il sopravvento,
per cui dopo qualche ora cadevo in una specie di anestesia
pneumatica, e poi volare su un 747 a dodicimila metri è
tutta un'altra faccenda. Sul medio raggio soffrivo letteralmente.
Tre o quattro ore in aereo erano troppo lunghe per contare
i minuti, troppo brevi per crollare fisicamente. Sai cosa
vuol dire trascorrere tre ore ad ascoltare e studiare ogni
più piccolo ed insignificante rumore e vibrazione
a caccia di qualcosa che a te appare insolito?
Ciò nonostante non ho mai smesso di volare. Non ho
mai voluto cedere del tutto, per quanto potessi star male
e per quanto dovessi usare tutte le mie energie per controllare
il panico. Cedere definitivamente alla paura avrebbe voluto
dire mettere una pietra sopra a ciò che amo di più
nella mia vita: viaggiare. Per non dire di mille altre cose.
Così mi sono tenuto i miei mal di stomaco e perlomeno
ho continuato a volare per andare in vacanza, cercando comunque
di evitare i voli per lavoro.
E non ditemi che è irrazionale, e non spiegatemi
la fisica del volo, e non perdete tempo con le solite storie.
So tutto, e lo so benissimo. Credetemi. E per di
più, me ne rendo perfettamente conto. Ho un'estrazione
ed un cultura matematica, ho studiato fisica, so tutto
dei fluidi, della meccanica del volo, della metereologia.
So tutto. Ma contro una fobia sapere tutto non serve
ad un accidente, e se non ne avete una è inutile
che stia a spiegarvi.
E pensare che a vent'anni volavo in Patagonia
d'inverno con dei cosi ad elica che nemmeno sto a dirvi.
E pensare che a vent'anni atterravo sulle piste di ghiaccio
delle Svalbard.
E pensare che già nel '98 avevo raggiunto il mio
primo Club Ulisse. Tanto per dire.
Quando abbiamo iniziato a portare Leonardo in viaggio con
noi mi è stato chiaro fin da subito che le cose dovevano
cambiare, almeno a livello di manifestazioni emotive. Emanuela
ha sempre saputo della mia paura di volare, ma questo non
ha ovviamente mai avuto alcun ritorno su di lei.
Con Leonardo il discorso si faceva all'improvviso diverso.
Se lui avesse percepito la mia paura di volare, forse ne
sarebbe stato influenzato. Così, fin dal suo battesimo
del volo, proprio durante il viaggio a Cipro(!),
ho dovuto cercare di comportarmi il più possibile
in modo normale. In realtà, durante il volo Leonardo
se lo sciroppava Emanuela, perché io cadevo comunque
nel mio autismo catatonico, ma almeno cercavo per quanto
possibile di non darglielo a vedere e mi sforzavo di prestargli
attenzione di tanto in tanto.
Leonardo, che adesso ha tre anni e mezzo, ha ormai già
volato un po' di volte ed è venuto anche in Giappone,
pacifico come solo un frequent flyer intercontinentale di
un metro di altezza può essere. Gli manca solo il
suo piccolo trolley, provvederemo quanto prima.
Anche Carola, più prima che poi, avrà il suo
battesimo del volo e magari sarà proprio Leonardo
a prendersi cura della sorellina e a spiegarle della cintura
di sicurezza e dei segnali luminosi.
Io, dieci mesi fa, di fronte a questa opportunità
di lavoro, ho deciso di rompere gli argini. Un po' per necessità,
un po' per curiosità, un po' per calcolo. In quel
momento pensavo che l'esperienza si sarebbe comunque esaurita
nel giro di due o tre mesi: pazienza, mi dicevo,
mi farò qualche mese con il mal di stomaco, ma
almeno do un'accelerata alla mia vita professionale.
Vita professionale che, per inciso, si era ormai arenata
da un bel po', con tutte le conseguenze del caso. Nel mio
mestiere, fra le altre cose, limitarsi il raggio di azione
a livello geografico non è esattamente una buona
idea. Ma non è questo il punto.
Il punto è che oggi, dieci mesi dopo, me ne sto quassù
a diecimila metri di altezza, con due tessere frequent flyer
in tasca, sorseggiando il mio prosecco mentre scrivo questo
post. Per la cronaca, vi dirò, in questo preciso
istante stiamo ballando parecchio, il comandante ha appena
chiesto di allacciare le cinture perché le turbolenze
si stanno facendo piuttosto intense, e comunque è
nulla in confronto a certi voli dello scorso inverno in
Lussemburgo (almeno, per ora...), tipo quello famoso del
doppio
atterraggio, per intenderci.
Quest'oggi, prima di arrivare in aeroporto, ho fatto un
paio di tranquille telefonate. In aeroporto mi sono fatto
un panino, ho dato un'occhiata svogliata ai soliti negozietti,
mi sono fatto un pisolino al gate in attesa di imbarcarmi.
In aereo, ho chiuso gli occhi per soli cinque minuti, al
decollo. Non ho smesso di farlo del tutto, no. Ma dura solo
il tempo del decollo, un paio di respiri profondi, finché
non ci siamo un po' staccati dal suolo. Poi, di solito,
apro gli occhi e guardo fuori dal finestrino. Tiro fuori
il giornale, o il pc, a seconda dei casi. Aspetto che passi
il carrello, di solito prendo un caffè, o un bicchier
d'acqua. Se è mattina faccio anche colazione, altrimenti
mi concedo uno spuntino, dipende un po' dall'orario del
volo.
Qualche volta dormo un po', quasi davvero, anche perché
sono stanco. Prendo sempre il posto di fianco al finestrino
e mi godo buona parte del volo. Soprattutto, non chiudo
più gli occhi durante l'atterraggio, anzi.
So che a molti di voi tutto ciò sembra assolutamente
normale. Per me non lo è, affatto.
Gli scorsi mesi, quando andavo in Lussemburgo, l'aereo seguiva la rotta fra
il Cervino, il Monte Rosa e il Monte Bianco, il teatro delle
mie ultime e recenti stagioni alpinistiche. Questi ultimi
tre mesi, sui voli da e per l'est, passiamo sulla verticale
delle Grigne e del Resegone, le mie montagne, e poi sul
Brenta, proprio sopra ad Andalo, dove sono cresciuto. Ormai
riconosco tutto l'arco alpino cima per cima, e quando non
ne riconosco una mi ci accanisco, voglio sapere.
Ho imparato anche a riconoscere quasi ogni metro quadrato
della Pianura Padana, come fosse un plastico, ed ogni volta,
ad ogni volo, quando il cielo è pulito, è
uno spettacolo che mi lascia senza fiato.
Anche questo, lo so, a molti di voi appare del tutto banale.
Per me no, non lo è, affatto.
Non ho rinunciato ai miei riti scaramantici, questo no.
Ma, diciamo così, non lo sa nessuno e quindi non
ve lo dico. E poi sono affezionato ai miei riti. Di tanto
in tanto, però, per sfida ne salto qualcuno di proposito.
Io me ne sto quassù, a diecimila metri di altezza,
e scrivo questo post sul mio computer. Questo aereo sta
ballando un bel po' e anche scrivere richiede qualche attenzione.
Vi dirò di più: anche scrivere questo post
è contro i miei riti scaramantici.
Non me ne frega nulla.
Ho vinto. Il mondo è bellissimo da quassù,
esattamente come lo ricordavo. E sorrido.
(E comunque non è che sia così proprio proprio
tutti i giorni, eh? Diciamo che sono sulla via per riuscirci.)
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Mentre scrivo
questo post...
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"Un'impresa d'altri tempi, proprio perché
tutto è stato organizzato senza l'ausilio dei portatori,
almeno dai campi più alti, e senza ossigeno."
Veramente, cari amici di Repubblica,
l'impresa è dei nostri tempi proprio perché
è stata organizzata senza l'ausilio dei portatori,
almeno dai campi più alti, e senza ossigeno. Anzi,
per dirvi la verità, oggi i più fighi i portatori
non li usano nemmeno per arrivare al campo base. Aggiornatevi,
o lasciate perdere, che forse è meglio. |
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"Viertnicia sto vashdishsha shes."
Da leggersi come l'ho scritto. Da pronunciarsi, possibilmente,
senza sputare.
[Trad: Wiertnicza 126. E' l'indirizzo
del mio ufficio a Warszawa] |
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Comunque, questa settimana all'hotel
Harenda non mi hanno dato lo shampino, né
mi hanno mai sostituito la saponetta, ridotta ad un'ostia.
Fino a ieri sera.
Ieri sera, al rientro in camera, ho trovato lo shampino
e la saponetta nuova. Però non c'era acqua.
(Epperò che devo dirvi:
a me l'Harenda piace. Sarà che mi sembra di essere
tornato ai tempi dell'ostello) |
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Random playlist from my iTunes archive, Warszawa, this afternoon, 34ºC outside, cool air conditioning in my office, headphones, bomb away:
Calling Elvis, Mark Knopfler Boom, like that, Mark Knopfler On an island, David Gilmour, Heal the pain, George Michael Everything, Micheal Bublé On a little street in Singapore, Manhattan Transfer Notas, Gotan Project, Clocks, Chris Martin Shake, shake, shake, K.C. & the Sunshine Band Are you gong with me, Pat Metheny Sunspot, Moby
(continua?) |
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Questa mattina l'aeroporto di Varsavia è stato temporaneamente isolato perché pare fosse stata segnalata una bomba. Nel senso: siamo regolarmente atterrati, ma abbiamo aspettato tre ore che riaprissero le vie di accesso per poter prendere un taxi, levarci da lì ed andare in ufficio.
I panini dell'aeroporto di Varsavia fanno schifo, per la cronaca. |
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