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Si potesse nuclearizzare la pandemìa turistica (quasi)
tutta - della quale, peraltro, noi stessi facciamo parte
(datemi un po' di tempo e magari ne scriverò qualcosa
in merito, ché questi giorni proprio non ne ho voglia,
per quanto ci abbia provato eccome) - e trapiantarci una
barriera corallina attorno, ecco, il luogo di per sé
sarebbe anche assolutamente perfetto. E ve lo dice
uno, lo sapete, che uomo di mare non è, che ha visto
anche mari come questo
e questo
e questo,
e che è pure arrivato fin qui assai prevenuto.
Così, per quel che posso, questa volta qualche angolino
di mare ve lo faccio anche vedere, senza esagerare.
Del clima vi ho già detto: in linea, diciamo un nove
pieno.
Urbanizzazione terroristica contenuta nel minimo sindacale
e di certo, per quello che ricordo delle coste spagnole
- dove non metto piede da vent'anni tondi - nulla al confronto
di certi incubi lunghi decine di chilometri che ancora tormentano
i miei ricordi del litorale continentale iberico.
Movida accuratamente evitabile nonostante sia pieno agosto,
fors'anche inesistente, ma non vorrei esagerare e cadere
nel surreale, ché il fatto che non la si sia incocciata
non significa che non abbia attecchito anche qui. E del
resto, dovessi affidarmi al (non) citato campionario umano
coloniale, avrei ben di che tornare sulla terra(ferma),
temo. Tornerò sull'argomento, datemi tempo.
Non so come siano le altre tre note isole del circondario,
né credo mi interessi venirlo a scoprire in un'esistenza
prossima. (Ri)parto con un inatteso senso di meraviglia
e di piacevole scoperta, non vorrei turbare in futuro il
ricordo di un luogo afferrato per caso, consiglio e scommessa,
che è stato capace, per una volta devo ammetterlo,
di sorprendermi.
[Non completamente, eh? Certi luoghi comuni che ho messo
in valigia rimangono confermati anche fin troppo, ma è
roba social-umanistica, non ambientale]
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Il nostro campo base è piazzato ad Arenal d'en Castell,
una bella baietta con acqua trasparente tipo vasca da bagno,
sabbia finissima bianca con intrusioni rossastre, inevitabile
minimo sindacale agostano di fila d'ombrelloni, personaggi
evitabili e dunque da evitare, barca d'ordinanza ancorata
al largo, vita animale autoctona prossima allo zero assoluto:
per dire, di sera intorno ai lampioni non vola un accidente
di niente, il che a pensarci è un po' inquietante.
Poco da dire di questo scoglio delle Baleari buttato qua
in mezzo al Mediterraneo occidentale. A dirvi la verità,
l'acqua è molto bella, ma tutte le isole mediterranee,
alla lunga, a me appaiono più o meno uguali. Colonie
di inglesi ed italiani charter, pochissimi germanici, spagnoli
a piacere. Negozi di souvenir. Sassi in bilico, dolmen e
menir, che un po' di preistoria, nel mare nostrum, non si
nega mai. Curiosamente qua ce n'è distribuita con
sorprendente abbondanza, ma ecco, non la definirei astonishing,
come mi è capitato di leggere.
Null'altro. Né, del resto, altro prevede il programma,
che non sia andare a caccia di qualche ulteriore spiaggia
passegginabile, attività non banalissima, poiché
le vere perle, qui come altrove, si raggiungono solo in
barca o scarpinando nella giungla. Il che, passeggino a
parte, con un cane gonfiabile, una palla di un metro di
raggio, rete di secchielli, palette, formine, ecc, borsone
asciugamani, bottiglie d'acqua e un'intera logistica da
spedizione all'isola dei famosi, ecco, non è proprio
una faccenda affrontabile in gaia leggerezza.
Brezza costante, clima secco assai, temperatura fissa a
ventotto, cielo limpido a oltranza. Mi farò un calippo
alla cola, va'.
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Per quanto mi riguarda, territorio numero 100 sul mio personale
tabellino, almeno secondo la classifica del World
Travellers' Century Club. Di per sé, già
un motivo sufficiente. Poi, battesimo del volo per Carola.
Leonardo ormai è bello scafato: fatti due conti,
è il suo undicesimo paese e il volo numero nove.
A quattro anni e mezzo è un discreto score
da piccolo globetrotter. A me i numeri (e le bandierine)
piacciono, si sa.
Magari voi pensate che alle Baleari - Menorca, nella fattispecie
- uno si metta a fotografare il mare, che per inciso non
è male. E invece no. Vabbè, uno scorcio da
lontano.
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No, così, per dire. E' che per caso siamo dalle parti di Menorca e ci ha depositato qui tre giorni fa, combinazione, proprio un MD82 della Spanair. Così, giusto per avvisare. |
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Perché? Vi prego, devo assolutamente sapere il perché. Perché diavolo da quanto esiste Orizzontintorno - e parliamo ormai di cinque anni - la seconda chiave di ricerca più gettonata con la quale la gente atterra fra queste pagine, dopo "sexy shop a Chiasso" (e fra l'altro mi chiedo anche perché ci sia così tanta gente interessata ai sexy shop a Chiasso invece, chessò, di quelli di Castelletto Ticino) è "fuso orario di Kirov" ? Cos'è che hanno di così speciale Kirov e, soprattutto, il suo fuso orario? Io ci sono stato a Kirov (città della Russia europea a ridosso degli Urali, sulla ferrovia Transiberiana, per la cronaca) e vi garantisco che è un buco di posto. E comunque, se proprio vi interessa, Kirov sta nella SAMST, Samara Time, pari a GMT+4. Fatevi i conti da soli insomma.
E adesso, vi prego, davvero non ci dormo la notte: perché, da cinque anni in qua, vi interessa così morbosamente sapere qual è il fuso orario di Kirov? |
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Diceva Eugenio, anni fa, che ogni volta che provava a mettersi davanti alla tv durante le olimpiadi, qualunque ora o giorno fosse, inesorabilmente beccava il dressage. Mai una volta - per dire - il canottaggio, o il tiro a volo, o il tennis da tavolo, o la pesca alla trota. Nulla da fare: dressage a manetta.
Mi è venuto in mente ieri, quando ho acceso per la prima volta la tv durante queste olimpiadi. Dressage. A squadre. Che secondo me è anche peggio. |
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Io, quello che penso di Da Polenza, lo penso da un bel po' di
anni. Vedo peraltro (per fortuna) che nell'ambiente non sono il
solo a pensarla così. Magari potrei anche farci un bel post
per gli addetti ai lavori - e in effetti ce l'ho in canna da settimane,
da quando perlomeno il nostro ha cavalcato e amplificato l'inutile
onda mediatica - ma tutto sommato alla fine non ne ho voglia. E
poi basta leggere
(nemmeno troppo) fra le righe. |
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Dice Matteo, mi sembra che alla fine tu abbia ammazzato
anche questo bastardo. In realtà no, per un soffio.
Ma è stata una gran bella avventura, certamente -
a mia memoria - la più lunga, completa e faticosa
che mi sia capitato di affrontare in questi anni nella mia
collezione
di 4000. Per dire, sono rientrato da quattro
giorni e ancora non cammino: non tanto per il mal di gambe
- anzi, quelle sono sorprendentemente a posto, potrei andare
tranquillamente a correre, segno che tutto l'allenamento
di questi mesi a qualcosa è pur servito - ma per
i miei poveri piedi, completamente devastati da ore ed ore
di cammino e migliaia di metri di dislivello macinati con
gli scarponi nuovi.
Piz Bernina, dunque, 4.049 metri, unico quattromila
della Alpi Centrali. Inseguito da
settimane, una partenza rimandata tre volte. Un
conto in sospeso da più o meno una dozzina d'anni,
o forse più, quando con Bruno feci un tentativo primaverile
interrotto alla Capanna Marinelli, a quota 2.800 scarsi,
a causa di una bufera di neve. Una notte trascorsa in rifugio
a sperare che il meteo migliorasse e poi, il mattino seguente,
la resa. Da allora, di tanto in tanto, mi guardo quell'unica
foto che scattai all'epoca e so che la partita è
ancora aperta.
Questa volta sono con Mauro, con cui ho salito la Weissmies
il mese scorso. Mi sono trovato bene, adesso ci conosciamo
un po', voglio quindi rinnovare il sodalizio. Durante il
viaggio mi dice che ha letto quello
che ho scritto a proposito della nostra salita alla
Weissmies. Dice, le gambe sono le tue, lo zaino te lo
porti tu, non è questione di guida o meno. Vero,
com'è però del resto vero che legarmi a lui
e poter fare totale affidamento su una guida mi scarica
(quasi) del tutto la testa di ogni responsabilità
ed ansia. Diciamo, se Mauro mi passa la metafora ovviamente
eretica, che c'è un po' la differenza fra il salire
un ottomila con l'ossigeno o senza.
Però una cosa è vera e devo riconoscerla.
Se sommo tutto, a salire con lui mi diverto e il motivo
è semplice: la testa più libera mi consente
di godermi molto di più i piaceri dell'ascensione.
Credo che questo compensi in buona parte l'evidente aiuto
nell'eventuale successo sulla cima e poi, a dirla proprio
tutta: ma che differenza (mi) fa legarmi a Mauro o, comunque,
ad un socio molto più esperto - come mi accade nella
maggioranza delle occasioni? Tanto a) non sono più
o meno bravo a seconda di quanta (inutile) ferraglia porto
attaccata all'imbragatura e b) salite solitarie di questo
tipo, come dieci e più anni fa, non ne faccio più,
ed è molto meglio così.
Insomma: salire con Mauro mi piace. Imparo, mi diverto,
sono tranquillo.
Piz Bernina: di norma si sale dal versante svizzero partendo
dall'arrivo della funivia del Diavolezza, a quota tremila,
e pernottando al rifugio Marco e Rosa, tremilaseicento metri
circa. La salita dal versante italiano è invece un'avventura
quasi d'altri tempi, come sulle Alpi è sempre più
difficile viverne: non ci sono impianti di risalita, non
c'è copertura del cellulare, l'ambiente del circo
glaciale di Scerscen è meravigliosamente selvaggio
ed isolato. In due giorni, al di sopra dei duemilaottocento
metri di quota, incontreremo solo una persona il primo giorno
ed un paio il secondo.
Dislivelli importanti: si lascia l'auto ai margini di un
bosco, a quota 1.930 metri. Sviluppo dell'itinerario, infinito:
chilometri di valli silenziose, due passi da scavalcare,
la Bocchetta delle Forbici a quota 2.636 ed il passo Marinelli
Occidentale a quota 3.014, ed ogni volta si ridiscende un
pezzo, perdendo irrimediabilmente un po' di quella quota
faticosamente guadagnata.
Tre rifugi lungo il percorso di salita. Al Carate, poco
sotto alla Bocchetta delle Forbici, arrivi in due ore e
mezza circa e dopo esserti lasciato alle spalle i primi
settecento metri di dislivello, il che ti dà anche
la misura di quanto sia distante dal parcheggio dell'auto,
considerato che mediamente si sale fra i trecento e i quattrocento
metri l'ora. Poi, la Capanna Marinelli, a più o meno
duemilaottocento metri: in teoria sono solo duecento di
dislivello dal Carate, in realtà devi scollinare
la Bocchetta delle Forbici, scendere un pezzo, percorrere
con un ampio cerchio la valle di Scerscen e infine risalire
il sentiero a tornanti che si arrampica fino al rifugio:
in poche parole, almeno un'altra ora e mezza. E fra una
cosa e l'altra sei già a quattro dall'auto. Se non
hai fatto pausa al Carate per riposarti, naturalmente.
Di solito la gente si ferma qui alla Marinelli: ne ha abbastanza
e si riserva per il giorno successivo il tentativo al Bernina,
dal quale mancano ancora più di milleduecento metri
di dislivello, lo scavalcamento del Passo Marinelli Occidentale
e - manco a dirlo - chilometri in orizzontale per attraversare
il ghiacciaio di Scerscen. Mauro ed io, invece, proseguiamo:
vogliamo tirare fino al rifugio Marco e Rosa, in cima alla
spalla del Bernina, a quota 3.597, in modo da dormire il
più in alto possibile e, il mattino dopo, svegliarci
a soli quattrocentocinquanta metri dalla cima del Bernina.
Sono già le 14.30 quando ci lasciamo alle spalle
la Capanna Marinelli, nel cielo si addensano grossi cumulonembi
neri: terrà il tempo? La Marinelli è peraltro
deserta: spieghiamo alla biondina che la custodisce che
proviamo a salire fino al Marco e Rosa e che caso mai, dovessimo
rinunciare, ci vediamo più tardi. Ma io so già
che se non dovessi raggiungere il Marco e Rosa l'indomani
non avrei più le forze per tentare la cima da quaggiù:
siamo troppo lontani e troppo in basso. Quindi, nonostante
sia già stanchissimo, per quanto mi riguarda la direzione
è una sola: su.
Arriviamo al Marco e Rosa alle 18.40, immersi nelle nuvole,
con quasi milleottocento metri di dislivello alle spalle
dal punto in cui abbiamo lasciato l'auto e dopo aver risalito
i trecento metri finali a 45° (Mauro: dati guida CAI
;-)) del canalone di Cresta Guzza, evitando anche qualche
scarica di sassi e scavalcando un paio di crepacce terminali.
Dire che sono un uomo distrutto non rende l'idea: ho impiegato
due ore solo per salire gli ultimi duecento metri, dieci
passi e soste di due o tre minuti alla volta per riprendere
fiato, manco fossi sulla cresta finale dell'Everest. Non
ho più un briciolo di energia, di forza, di nulla,
nemmeno di capacità di intendere e volere. Ho impiegato
otto ore e mezza per arrivare fin quassù e l'unica
cosa che riesco a pensare è che mi viene da vomitare,
che i piedi mi fanno un male boia e che le gambe se ne sono
belle che andate. Altro che salire in vetta: dove diavolo
trovo le forze per ridiscendere, domani?? Ma dov'è
andato a finire tutto l'allenamento di questi mesi?
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Piz Roseg
e Scerscen dal passo Marinelli Occidentale
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Il titolare
qui sul ghiacciaio di Scerscen
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Mauro sulla
spalla del Bernina
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In cima alla
spalla del Bernina, presso il Marco e Rosa
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La vista sullo
Scerscen e sul Disgrazia dal Marco e Rosa
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Il panorama dal Marco e Rosa è spettacolare. Sotto
di noi, verso sud, la spalla a fianco della quale siamo saliti
precipita per cinquecento metri sui ghiacciai di Scerscen.
Sull'orizzonte, il gruppo del Disgrazia. Dietro il rifugio,
nascosta, la cima del Bernina. E poi la vista spazia sulla
Cresta Guzza, proprio sopra le nostre teste, e sui Pizzi Zupò,
Argent, Bellavista, fino ai Palù. Un circo glaciale
impressionante.
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