Anche questa volta me lo sono letto tutto. Nulla da dire:
la Fallaci, tecnicamente parlando, viaggia sempre una spanna
al di sopra della media. Scorre, scorre e corre, eccome.
Se inizi, non la molli fino alla fine, non ce n'è.
Magari ti fa imbestialire, magari useresti la pagina di
giornale per attività che mal si accoppiano con il
piombo dell'inchiostro. Ma in fondo ci arrivi, non fosse
altro per vedere dove va a parare.
Peraltro, è fin troppo noiosa e scontata la solita
levata di scudi che da buona parte delle "pubblica"
opinione intellettualpolitica si solleva scandalizzata contro
il suo ennesimo anatema.
Me lo sono letto con attenzione il pezzo.
In via del tutto generale, la Fallaci argomenta i concetti
in un modo francamente smontabile solo con difficoltà
e avendo ottime cognizioni di causa. Altrimenti alzi la
mano, davvero, chi non ne condivide alcune posizioni, considerate
singolarmente, una ad una. Perché il fatto è
che sono proprio quelle argomentazioni a tenere banco, laddove
invece i suoi detrattori si arrampicano su luoghi comuni
consueti e bolliti, in nome di principi che molto raramente
sono in grado di sostenere con altrettanti argomenti e difendere
in modo altrettanto intelligente.
Abbaiare è fin troppo facile, soprattutto quando
la materia si presta ad essere frullata da un'opinione pubblica
anestetizzata dai nostri monoMedia; mordere davvero è
molto più difficile e richiede denti, che spesso
chi abbaia non ha.
Ci provo io. O meglio, oso. Ché certamente non ho
affatto le credenziali per farlo, né la statura,
ma poiché sono assolutamente d'accordo con la Fallaci
quando afferma che perseguire il reato d'opinione è
una cagata pazzesca (lo scrive Villaggio, posso scriverlo
anche io), allora difendo in primis il mio diritto ad avere
un'opinione e a ritenerla confrontabile, almeno nella mia
piccola quotidianità, con la sua.
Io credo molto banalmente che sia il filo logico, sia il
risultato dell'analisi fallaciana, non stiano in piedi.
Almeno, non sulla base di quegli stessi principi di democrazia,
civiltà e tolleranza, laici o cristiani che siano,
che lei prende quale metro di riferimento.
Poi posso darle (ahimé) ragione su mille altre cose.
Ma non sul pacchetto complessivo che confeziona con il fiocco
per i lettori del Corsera.
Faccio un passo indietro. Iran, autunno 2002. Emanuela ed
io siamo ormai in viaggio verso casa e Tehran è sulla
nostra strada. Abbiamo già esperienza di Paesi arabi:
ci siamo sempre trovati bene, certamente molto più
di quanto - tanto per fare un esempio - entrambi non ci
siamo trovati in estremo oriente. Ne veniamo dall'Asia Centrale
e, ancor prima, dal subcontinente e dalla grande Cina.
Entriamo in Iran non attraverso la porta principale, né
intruppati in qualche anestetizzata comitiva di occidentali
filoradical-chic, anzi. Attraversiamo una remota frontiera
nel deserto, a pochi chilometri dall'Afghanistan, nelle
estreme regioni orientali che sono fra l'altro la culla
dell'integralismo sciita. Del resto, la nostra prima tappa
è proprio Mashhad, la città santa per eccellenza,
al di fuori delle rotte turistiche tradizionalmente battute.
Tehran è molto lontana da Mashhad, non solo fisicamente.
Non meno di quanto Palermo sia lontana da Bolzano, tanto
per intenderci. Con qualche differenza fondamentale: i treni
a Mashhad funzionano bene come nella capitale e in generale
è così per tutti i servizi. Gli impiegati
pubblici di Mashhad parlano inglese correttamente, come
quelli di Tehran, e la disponibilità verso il turista
occidentale è esattamente la medesima. Lo sono anche
i sorrisi della gente e la famosa quanto temibile (!) ospitalità
aggressiva iraniana.
Le strade - ben asfaltate e segnalate - ed il traffico sono
uguali, ad est come ad ovest. Gli iraniani allacciano le
cinture anche a Mashhad e se ti capita di prendere il taxi
puoi stare certo che l'autista ti farà segno, per
favore, di adeguarti al codice. In cambio, se il viaggio
è lungo, può capitare che si fermi da qualche
parte e ti offra un'anguria per rinfrescarti.
Ci sono anche molte differenze fra Mashhad e Tehran, un
po' come fra Palermo e Bolzano. A Mashhad le donne scompaiono
sotto lo chador nero, a Tehran le giovani iraniane progressiste
sfidano le secolari leggi coraniche lasciandosi scappare
lunghe ciocche di capelli fuori dai foulard colorati, provocatoriamente
portati sempre più indietro sulla testa.
Però, sul treno fra Mashhad e Tehran, così
come su quello fra Tehran e Tabriz, puoi lasciare più
o meno tranquillamente il tuo bagaglio incustodito. E a
proposito: a Mashhad e a Tehran a quanto pare puoi andartene
in giro abbastanza tranquillamente anche di notte, anche
se sei donna e straniera. O almeno, diciamo senza usare
certo più precauzioni di quelle che useresti a Milano,
o a New York, o ad Amburgo. Cito a caso.
Parlano volentieri gli iraniani. Di business, soprattutto.
In questo, non sono molto diversi dai loro colleghi di quasi
tutta l'Asia. Non ti parlano, però, come se si rivolgessero
ad un estraneo - come invece fanno i loro colleghi cinesi,
ad esempio. Né certo come ad un cane infedele. Oddio,
che tu, in quanto occidentale, sia una curiosità
per loro è innegabile e se poi ci può scappare
del business tanto meglio. Ma non ricordo di alcuno che
mi abbia dato l'impressione di vedermi come un potenziale
bersaglio, o come un essere inferiore, o come un bianco,
grasso e ricco imperialista. Né mi sembra di averne
incontrati con lo zaino in spalla carico di esplosivo, o
desiderosi di immolarsi per una qualunque stronza causa.
Nemmeno gli impiegati di Mashhad. Nemmeno quelli che lavorano
ad Àstàn-é Qods-é Razavì,
che è un po' come dire che non mi sembra di aver
mai incontrato predicatori cattolici invasati in San Pietro.
E sì che i muezzin di Àstàn-é
Qods-é Razavì non devono certo essere particolarmente
moderati verso noi corrotti e corruttori occidentali.
Ma forse queste sono tutte percezioni distorte. Una cosa,
però, è certa: sono percezioni vissute. Mi
chiedo quanti, fra coloro che abbaiano in una direzione
piuttosto che nell'altra, possano dire di avere la medesima
cognizione di causa. E parlo di opinione pubblica, non di
opinionisti titolati a farlo.
Ritorno al punto.
Il grido della Fallaci, ormai trito e ritrito, affonda le
radici in esperienze certo molto più consolidate,
tangibili e credibili di quelle che porto io. Non mi metto
sicuramente a confrontare le credenziali, ci mancherebbe.
Ma quello che personalmente non condivido è il ragionamento
che via via lei sviluppa.
Guerra, e va bene: ma contro chi? Non si spara ad una ideologia,
tanto meno senza selezionare fra le possibili interpretazioni
alle quali quella medesima ideologia si presta. E la gran
parte della gente comune, di qualunque Paese, luogo, razza,
religione, cultura di appartenenza sia, non è mai
né direttamente coinvolta, né riconducibile
all'ideologia in quanto tale professata da pochi.
Salgo un gradino. Tralasciando lo sciagurato errore strategico
compiuto dall'amministrazione Bush - e da tutti coloro che
l'hanno seguita - con la campagna irachena, diciamo che
va bene: l'America e l'Occidente sono stati attaccati per
primi l'11 settembre 2001. Diciamo anche, semplificando
così mostruosamente, che i mandanti dell'attacco
se ne stessero rintanati in Afghanistan con la benedizione
del Mullah Omar, e che di conseguenza radere al suolo l'intero
Paese abbia potuto essere una reazione umanamente
inevitabile, ancorché discutibile, o non
condivisibile, ma che ci sia potuta stare. Per carità,
agghiacciante.
So what? Guerra a chi, dopo?
Perché ciò che distingue - o che dovrebbe
distinguere - la nostra moderna concezione occidentale,
laica o cattolica che sia, di civiltà, democrazia
e libertà, da quella barbara e disumana che la Fallaci
attribuisce in toto alla cultura islamica, dovrebbero proprio
essere la logica razionale, la capacità e la predisposizione
al dialogo, la moderazione, il rifiuto della violenza, il
proporsi come alternativa - soprattutto nei fatti - alla
cultura della guerra e dell'odio. Come si dice: non metterti
a discutere con un idiota, la gente potrebbe non cogliere
la differenza. E' un'astrazione estrema, va bene, ma giusto
per cogliere il punto.
E allora: guerra a chi? Perché? In nome di cosa?
E qual è il messaggio della Fallaci? Io non riesco
a coglierlo e lei non me lo spiega, mi riempie solo la testa
di anatemi, insulti e terribili profezie.
Non capisco: dobbiamo forse buttarli tutti a mare? Invadere
ogni Paese musulmano e raderlo al suolo in nome della nostra
democrazia? E perché, allora, tanto che ci siamo,
non includere nella lista anche la Corea del Nord, o meglio
ancora la Cina, che proprio ieri è tornata a paventare
l'impiego delle armi atomiche in risposta ad un uso ipotetico
di armi convenzionali occidentali a supporto di Taiwan?
E perché non andare a prendere a calci Putin e i
suoi amici, che certo musulmani non sono, ma che in Asia
Centrale calpestano quotidianamente qualunque fra i principi
che tanto piacciono alle nostre civili democrazie e alla
Fallaci stessa?
Io ho camminato sicuro per le strade di Tehran, ed Emanuela
- con un velo in testa - pure. Ho trovato gente cordiale,
aperta, disponibile. Non posso dire la stessa cosa di Almaty,
tanto per tirare un nome a caso. Non posso certo dire la
stessa cosa nemmeno di Milano, tanto per tirare un altro nome
a caso. E vorrei osservare che non potevo dirlo nemmeno
prima dell'avvento delle ondate migratorie che hanno portato
in Italia e in tutta Europa il Mostro, come lo chiama la
Fallaci.
Torniamo in Cina. Lo Xinjiang, nell'estremo occidente del
Paese, occupa circa un quarto della Cina intera ed è
abitato da una larga maggioranza etnica musulmana. C'è
qualche milionata di uyghuri nell'area che da cinquant'anni
è perseguitata dal governo di Pechino, né più
né meno di quanto accada analogamente ai tibetani
in casa loro.
Chi sono, dunque, i cattivi nello Xinjiang? E se anche nella
moschea di Kashgar si nascondessero estremisti islamici
fanatici carichi di dinamite, chi ha ragione fra questi
ultimi e la temibile polizia politica cinese che controlla
l'intera regione? Già mi viene la pelle d'oca ad
usare il termine ragione.
Io ho mangiato al tavolo dei commercianti di Kashgar, e
sono stato invitato a prendere il té dagli avventori
di Hotan. Non mi è sembrato che nessuno di loro volesse
sterminarmi: di certo non mi hanno avvelenato, perlomeno
non più di quanto non abbiano fatto induisti, confuciani,
taoisti, ebrei, seguaci dello sciamanesimo mongolo e atei
in generale in giro per tutto il resto dell'Asia.
Quindi, siamo in guerra? Con chi, Iraq a parte? Con l'Iran?
Con l'Arabia Saudita? Con la Libia, la Tunisia, l'Egitto,
la Siria, gli Emirati, l'Oman, l'Algeria? O con il Senegal,
l'Albania, la Romania, le Filippine, la Cina, l'intero Sudamerica,
l'Ucraina? Così, per dire: tutta gente che arriva
e lavora qui, legalmente o meno. Si infiltra nella nostra
società, manda i propri figli a scuola con i nostri,
professa talvolta altre religioni. Ruba, come noi. Tende
spesso a farlo più per fame che per altri motivi.
Noi, più che altro, per farci il Cayenne.
Sto estremizzando, lo so. Ma cerco di ragionare, giocando
sullo stesso piano della Fallaci, e quindi devo volare alto.
Butto lì: la nostra democrazia e civiltà è
anche quella dell'ETA, dell'Irlanda del Nord, delle Brigate
Rosse. Che c'entra il Corano? Lo Stato Italiano ha forse
combattutto le Brigate Rosse dichiarando guerra al PCI?
Sono tuttavia d'accordo quando scrive - o vorrebbe scrivere
- che tolleranza, integrazione e disponibilità, non
significano e non devono significare annullamento dei nostri
valori per far spazio a culture aliene. Ma entriamo su un
terreno assai spinoso. E' un po' come il dibattito crocifisso
sì, crocifisso no: non ha mai dato fastidio a nessuno,
il crocifisso, finché qualche testa vuota non ha
iniziato a strumentalizzarne stupidamente il valore simbolico.
Sono d'accordo con la Fallaci quando si scaglia contro la
faciloneria e la demagogia con la quale i nostri politici
e una certa classe intellettuale mescolano indifferentemente
alcuni episodi di criminalità comune compiuti dagli
immigrati con il problema del razzismo e della tolleranza.
Ma il brevissimo passo verso la generalizzazione è
tanto stupido quanto strumentale.
Peraltro la Fallaci, in questo senso, non fa altro che dar
fiato a quello che pensa(va) la mia segretaria - che spero
non legga, o che se legge mi auguro non me ne voglia. Sta
di fatto che è un campione statistico perfetto: "Non
ho nulla contro di loro, finché se ne stanno
a casa propria e non mi danno fastidio."
Certo, bisognerebbe capire chi sono loro, anche perché
davanti alla fotocopiatrice lei non me lo sa spiegare, tranne
genericamente indicare tutti quelli che vengono qui.
Dice solo che rubano tutti, che ci vogliono solo male, che
sono tutti terroristi e delinquenti. Chissà cosa
ne pensa la mia filippina che ormai da dieci anni lavora
per me ed alla quale affidiamo qualche volta anche Leonardo.
La Fallaci gioca a fare la Cassandra e dall'alto della sua
penna lancia mòniti a noi, povera massa inerte e
rincoglionita che accoglie il diavolo in casa e assiste
impotente alla propria condanna a morte.
Ora, io posso anche svegliarmi, come mi chiede lei, ma quand'anche
mi sia seduto sul bordo del letto che altro posso fare se
non smettere di andare in metropolitana? Non devo più
parlare al macellaio egiziano? Smetto di versar soldi ad
Emergency? Voto Lega?
Grazie, ma dovendo proprio scegliere preferisco tenermi
l'egiziano e mandare a casa Calderoli.
Alla Fallaci vorrei poter rispondere che mi è piaciuto
il suo pezzo. Davvero: vorrei saper scrivere io così
e inventarmi quattr'anni o finoggi.
Ma vorrei spiegarle che temo nessuno di noi abbia bisogno
di lei per immaginare che con buona probabilità il
prossimo sarà il nostro turno e sì, attorno
alle elezioni del 2006. Se vuole lo scrivo anche io, così
poi potrò unirmi a coloro che lo avevano detto e
starnazzare che noi sì che eravamo svegli.
Ma a parte che preferirei passare l'intera mia vita da idiota,
piuttosto che far centro su questo tipo di previsioni, come
preveniamo questa possibilità? Bombardando Tehran
e Mashhad? O dialogando con il macellaio egiziano sotto
casa?
(*) Lo spunto per il titolo l'ho preso da qui. |