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Ci pensavo ieri, mentre scrivevo di Pico.
Fra decine di migliaia di fotografie e ore di filmati, conservo brevi registrazioni sparse, suoni del mio passato che ho catturato altrove per caso col telefonino, per fissare istanti della mia vita.
La voce di Albert che mi parla in armeno, mentre guida a rompicollo giù dai tornanti del Vayots Dzor raccontandomi cose sue che non saprò mai.
Una musica balcanica strana che esce da un bar, lungo una strada affossata in un canyon alla frontiera fra Kosovo e Montenegro.
Una struggente cantilena polinesiana, diffusa dagli altoparlanti e disturbata dal rumore di fondo della folla in coda all'ufficio immigrazione, in una calda alba di marzo nella hall della dogana all'aeroporto di Rarotonga.
Una piccola orchestra che suona al mercato di Avarua.
Una intensa telefonata in indi fra Vinay e un interlocutore sconosciuto, il dialogo velocissimo e incomprensibile che la rende ancora più bizzarra e misteriosa, mentre mi accompagna in hotel con la sua auto dopo una cena in un'umida e malinconica serata davanti al golfo di Goa.
Gli uccelli notturni di Pico che fanno un chiasso incredibile con quei versi buffi a cui viene naturale rispondere cercando di imitarli, per cui sembra davvero che ne nasca una discussione accesa in terrazza, nella notte tiepida di Terra Alta.
L'ultima non è stata un'idea mia ed è la traccia più bella. |
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12.48 del 03 Settembre 2019
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