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Domenica di inizio maggio, pomeriggio, caldo. Finestre aperte. Solo.
Alla tv passa un film sul grande Torino. Di nuovo ritorno a una sera di inizio dicembre, tre anni fa, al santuario di Superga. Un parcheggio. Torino illuminata. Freddo.
L'attimo congelato, per sempre. Come quella sera a Terceira.
Decido di lasciare che i ricordi mi travolgano un po' alla volta, si allarghino a far danni senza incontrare alcuna resistenza, dilaghino attorno a me, rovescino questo ennesimo pomeriggio buttato nel nulla e mi trafiggano.
Così arriva l'onda lunga, e io vado sotto, e non riesco più a riemergere, ogni volta.
Come in un pozzo senza fondo. Come il pozzo di San Patrizio a Orvieto. Come milioni e milioni di immagini, e suoni, e parole, e minuti, e risate, e chilometri, e curve, e cose.
Il senso delle cose.
L'inutilità delle ragioni e dei torti di fronte al tempo passato, alla simbiosi perduta e irripetibile, all'amore non vissuto.
Discanto, poi.
Ho tirato fuori dal cassetto i pigiami estivi. Non entro più nei pantaloncini che lo scorso anno mi erano fin troppo larghi. Un paio di taglie in più perlomeno, a occhio, in pochi mesi.
Non mi peso più da tempo.
Non corro più.
Non misuro più le pulsazioni, né la pressione.
Quante cose ho smesso di fare.
Quante perdute.
Discanto, ancora.
Mi guardo allo specchio. Sto un po' lì a fissarmi e a decidere il da farsi. Poi prendo il rasoio e provo a mettere una pezza a questa solitudine infinita che non sarà un permesso di allontanarmi da casa con una mascherina sul volto a risolvere.
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TAG: coronavirus, quarantena |
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