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Ho ripreso in mano "Orizzonti di ghiaccio" di Reinhold
Messner, un libro che ho già letto almeno tre volte, scritto
a valle della spedizione in Tibet del 1980 che lo vide protagonista
di una delle sue imprese più memorabili: la prima salita
dell'Everest completamente in solitaria, effettuata fra
l'altro in periodo monsonico, senza alcun appoggio esterno,
senza collegamenti radio, senza naturalmente (per
lui...) uso di ossigeno supplementare e per giunta tracciando
una via parzialmente nuova sul versante settentrionale.
Salire la montagna - qualunque montagna in Himalaya, figuratevi
l'Everest - in periodo monsonico, non solo significava e
significa affrontare le peggiori condizioni climatiche in
alta quota che la vostra mente possa immaginare, ma voleva
e vuol anche dire trovarsi completamente da soli in uno
dei luoghi più inospitali del mondo nel periodo in cui,
qualche nomade o monaco tibetano a parte, le persone più
vicine si trovano a centinaia di chilometri di distanza.
Per i non addetti, due anni prima Messner aveva già salito
l'Everest con un compagno, realizzando la prima ascensione
assoluta senza ausilio delle bombole di ossigeno: un'impresa
fino a quel momento da molti ritenuta impossibile, alcuni
camici bianchi inclusi. Ecco, questa nuova impresa aveva
annichilito quella precedente.
Vi faccio un paragone, giusto per darvi la dimensione: è
un po' come se oggi qualcuno andasse sulla Luna da solo,
con un razzo a pedali costruito in casa, in costume da bagno,
cantando O' sole mio e durante lo sciopero della
Nasa...
Ora, per chi come me è cresciuto mangiando pane e libri
di Reinhold Messner, non vi è qui nulla di nuovo. E' anche
vero che quando si parla di Messner c'è sempre qualcuno
che sfodera il classico luogo comune amestasulcazzo,
chissà poi perché.
Così, sempre per i non addetti, e tanto per coinvolgervi
un po' nella faccenda, aggiungo che colui che vistasulcazzo
è stato il primo uomo a salire tutti gli ottomila
della Terra (e quattro di essi li ha saliti due volte...),
il primo a salire un 8000 da solo, il primo a salire un
8000 in periodo monsonico, il primo a concatenare due 8000
nella stessa ascensione, il primo a salire un 8000 completamente
in stile alpino (ovvero: tendina e sacco a pelo; niente
portatori, niente mega-spedizioni, ecc.), il primo a salire
tre 8000 nello stesso anno, il primo a salire l'Everest
senza ossigeno e pure da solo: anni '70 ed '80, preistoria,
quando erano ancora molti ad andare in montagna con i pantaloni
alla zuava e la fiaschetta di grappa, cantando La Montanara
(io lo faccio ancora oggi con Leonardo...).
Reinhold Messner era (ed è) quello che oltre Manica verrebbe
definito un visionary, un tipetto avanti anni luce
rispetto alla Storia.
Non ultimo, il nostro uomo è sempre tornato vivo. Capite
dunque che leggere i suoi libri e il suo modo di interpretare
la vita, e di raccontarla, non deve poi essere così male,
vi pare? Certo meglio che leggere la biografia di Baggio,
immagino.
"Orizzonti di ghiaccio", dicevo, è il racconto della sua
ascensione solitaria all'Everest del 1980. Già due anni
prima Messner era riuscito nell'impresa di salire per primo
al mondo un 8000, il difficile Nanga Parbat, completamente
da solo. Personalmente ritengo il libro dedicato a quell'ascensione
più bello di "Orizzonti di ghiaccio", ma mentre "Nanga Parbat
in solitaria" rientra nella più classica letteratura di
montagna, "Orizzonti di ghiaccio" è soprattutto il viaggio
in Tibet di uno dei primi occidentali riusciti ad entrare
nel Paese dopo l'occupazione cinese. Solo questo lo rende
già di per sé un libro che ogni appassionato di viaggi dovrebbe
custodire gelosamente nella propria biblioteca.
Per quanto mi riguarda, poi, a me Messner piace perché mi
riconosco fin troppo bene nel suo modo di porsi di fronte
all'esistenza quotidiana. Mi ci riconosco fin da ragazzo
e non mi vergogno affatto ad ammettere che a tratti gli
ho sempre "invidiato" il coraggio di alcune scelte - badate
bene: non del "coraggio alpinistico", che non è affatto
un metro con il quale misurare le ragioni di un'esistenza,
ma del "coraggio di essere", che è tutt'altra materia.
Mi ero proposto di rileggere il libro subito al ritorno
dal nostro viaggio
in Tibet del 2002, per ripercorrere il racconto
di Messner mettendolo a confronto con ciò che noi stessi
avevamo vissuto in prima persona, lungo la sua stessa rotta,
più di vent'anni dopo. Invece, solo qualche sera fa ho finalmente
ripescato quel volume quasi per caso fra gli scaffali della
mia libreria e, come sempre accade in questi casi, ho iniziato
a sfogliarlo distrattamente, andando a rivedere le sue vecchie
fotografie di panorami e volti ora anche a me familiari,
per poi iniziare a leggere qualche pagina a caso qua e là,
ed infine riaprirlo definitivamente dalla prima pagina.
In ventiquattr'ore l'avevo ovviamente già quasi terminato.
Divorato.
Dico un'eresia, lo so, non c'è bisogno
che me lo facciate notare, né del resto mi interessa. Sta
di fatto che io leggo Messner ed è come se fossi lì con
lui, anzi: come se fossi al suo posto. Come se riuscissi,
esattamente, a percepire i suoi stati d'animo, a comprendere
perfettamente le dimensioni, a sentire i rumori attorno,
gli odori, gli attimi di indecisione e quelli di decisione.
Come se sapessi. Che è del tutto irrazionale ed anche
un po' presuntuosetto, ma è una sensazione che scorrendo
le sue pagine non sono mai riuscito a togliermi dalla pelle.
Non è così, ad esempio, quando leggo Hermann Buhl, o Diemberger:
scrivono da dio, i loro libri sono capolavori e le loro
avventure straordinarie, ma le loro sensazioni di pelle
non sono le mie, o lo sono molto alla lontana. Io leggo
Buhl e Diemberger e non posso che constatarne la loro grandezza
umana e sportiva espresse in una dimensione che so, ahimé,
mai mi apparterrà.
Mi viene in mente che è un po' la stessa differenza che
ho provato fra il trovarmi di fronte al Cerro
Torre e la mia esperienza ai piedi dell'Everest.
In Patagonia realizzai certo uno dei grandi sogni della
mia vita: ero però arrivato anche al termine di una corsa.
Il Torre era lì, sopra di me, straordinario e bellissimo,
ma inavvicinabile. Perlomeno, io lo vedevo così. Mi fu immediatamente
chiaro che mai nella mia vita ci sarebbe stato spazio per
andare oltre, che non potevo far altro che ammirarlo
rimanendomene seduto lì sotto. E non provavo alcun senso
di sconfitta, anzi. Ero felice di avere toccato il muro
e sentivo quanto quel missile di granito che avevo sognato
per vent'anni fosse un'immagine che, pur parte integrante
di me, mi era allo stesso tempo lontanissima. Tutte le Ande
patagoniche mi hanno fatto un po' quello stesso effetto.
Ma all'Everest, no. Né sotto allo Shisha Pangma, né al Cho
Oyu: davanti agli 8000, no. Dovermi fermare ai piedi dell'Everest,
non poter andare oltre, spingermi più avanti e più in alto,
era una sofferenza tanto quanto il trovarmi finalmente
lì mi era del tutto familiare, in sintonia, normale.
Non mi sentivo affatto fuori luogo, né avvertivo alcun muro
davanti a me. Era come sentirsi totalmente partécipe del
palcoscenico circostante, come esserne parte integrante,
come aver sempre vissuto respirando quell'aria sottile.
Non mi sentivo un intruso, in qualche modo comprendevo
e sentivo. Io e l'ambiente che mi circondava eravamo
una cosa sola, ero un elemento in armonia con tutto il resto.
Ora, prima che pensiate che stia delirando e che il mio
pusher stia esagerando nel tagliarmi la roba, vorrei sottolineare
che non ho affatto detto né che sarei in grado di salire
l'Everest, né tanto meno che ho sempre pensato di essere
all'altezza di sua maestà Reinhold: per carità, ci mancherebbe
altro. Sto parlando di conoscenza interiore, del
modo di sentirsi e di rapportarsi verso lo spazio circostante.
E comunque sì, sono certo che quasi certamente non in vetta,
ma molto molto in alto potrei spingermi, almeno quanto a
potenzialità psicologiche e fisiche.
Il fatto è che io, l'Everest e gli 8000, li sogno e li studio
da sempre. E se non sognate da una vita come me,
non potete capire.
Come al solito, sono andato del tutto fuori tema. Non di
questo volevo scrivere, ma quando attacco con l'Everest...
chiedete ad Emanuela.
Si parlava di Messner e del suo viaggio in Tibet. Sono passati
venticinque anni dal suo racconto ed è davvero interessante
mettere a confronto la sua Pechino con la nostra del XXI
secolo. Due mondi lontanissimi, i cui princìpi di rivoluzione
- nel senso orbitale del termine - sono però rimasti del
tutto invariati. Riconosco perfettamente le difficoltà nel
rapportarsi con i cinesi, le sento mie, del tutto analoghe.
E che dire di Lhasa, di Shigatse, di Gyantse: in questi
venticinque anni sono state ricostruite, ma i volti sono
quelli, l'odore è quello, l'aria sottile è sempre la stessa,
i sapori quelli sono. I momo, il burro di yak, le
trecce rosse, i cappelli circolari dei nomadi dell'Amdo,
le collane di turchese, i sorrisi cotti dal sole e dall'alta
quota, le bandierine colorate delle preghiere, la polvere,
la luce e il gioco delle nuvole monsoniche. Perché, fra
l'altro, siamo stati laggiù nel medesimo periodo, sotto
a quel monsone che lui sfidò nel 1980. Eravamo al campo
base dell'Everest esattamente ventidue anni dopo il suo
passaggio.
Mi immergo fra le righe: conosco quei sassi di cui parla,
riconosco quegli orizzonti, i profili che descrive, i dialoghi
a gesti, il vapore del té che sale e quella valle ai piedi
della parete nord dell'Everest. Sento nuovamente il vento
di Rongbuk (o Rongphu, secondo la dizione che abbiamo scelto
noi) scivolarmi addosso.
Osservo le foto di Messner da solo, davanti ai tre chilometri
di parete imbiancata dal monsone, sotto a quella cima lontanissima
nel cielo che appare e scompare fra le nuvole temporalesche,
in piedi su quella pietraia ad oltre cinquemila metri dimenticata
da Dio e dagli uomini. Sono là anche io: anche io ci sono
stato, anche io ho visto, anche io mi sono trovato là da
solo. Riesco a leggergli nel pensiero. Anche io ho pianto
là sotto.
Poi, lui ha proseguito. E io, di nuovo, per l'ennesima volta,
sono salito con lui. Dopo avere attraversato tutto il Tibet,
esplorato la regione dello Shisha Pangma e percorso la Friendship
Highway, Messner mi ha infine riportato in vetta con sé
e mi è sembrato nuovamente di rubare ogni molecola d'aria
dallo spazio circostante, passo dopo passo, verso il totale
annullamento dentro se stessi.
Leggetelo, se riuscite ancora a trovarlo.
Ritorno su un piano meno onirico, a quello che poi è stato
lo spunto per tutta 'sta pappardella, l'anello iniziale
della catena di pensieri che mi ha portato a rileggermi
"Orizzonti di ghiaccio": io oggi, di fatto, non ho più un
compagno di cordata.
Sono trascorsi ormai otto anni dal mio ultimo quattromila
e mi sembra incredibile: il tempo mi si consuma addosso
senza che nemmeno riesca ad accorgermene. Siamo alle solite:
lo vedo allontanarsi davanti a me sempre più rapidamente.
Continuo a ripensare all'appuntamento
saltato di quest'estate e talvolta, la sera prima
di addormentarmi, ancora non mi do pace. La mia voglia di
tornare in alto è sempre più incontenibile e, apparentemente,
sempre più difficile da risolvere.
Non ho più un compagno di cordata - gli amici hanno appeso
gli scarponi al chiodo da tempo, vuoi per i figli, vuoi
per qualche ginocchio, qualche legamento, qualche menisco,
vuoi perché le persone cambiano e invecchiano. E non è che
un compagno di cordata te lo inventi da un giorno all'altro,
soprattutto quando anche la tua vita ti porta in tutt'altra
direzione, ad esempio a fare il pendolare fra Milano e Maranello.
Un compagno di cordata, nel mio caso, è sempre stato prima
di tutto un amico. Qualcuno con cui l'andare in montagna
è diventato un fatto puramente incidentale all'interno di
un percorso di amicizia e conoscenza durato anni. Io, per
dire, non sono mai stato il tipo che si iscrive ai circoli
per trovare soci d'avventura: esattamente come viaggio da
solo, e non con qualunque Avventure nel Mondo, così è il
mio modo di andare in montagna. Ho la tessera del CAI da
venticinque anni, ma salvo un breve periodo della mia vita
nel quale ho partecipato ai corsi di roccia e di scialpinismo,
non ne ho mai frequentato l'ambiente, né ho conservato alcuna
relazione. Ho partecipato ai corsi con i miei amici, ho
continuato ad andare in montagna con loro.
Né mi verrebbe mai in mente di andare in montagna intruppato
in qualche pullman della domenica. Torniamo sempre lì: io
sono un accidenti di orso, viaggio da solo o viaggiamo in
due, vado in montagna da solo, o con un amico. In tre avverto
spesso già la folla. Questo approccio, che è poi
uno stile di vita ed un modo di essere, fa sì che io mi
muova quasi per definizione solo con persone che conosco
e che mi conoscono a fondo. E' una relazione basata
sulla fiducia cieca dell'altro e sul sapere a priori che
qualunque decisione io prenda nel mio intimo e nel mio procedere
in avanti, o in alto, molto probabilmente non sarà da discutere.
Potete leggerla in altro modo: se io ho paura e voglio tornare
indietro, non voglio discuterne nemmeno per un istante ed
essere allo stesso tempo certo di non rovinare la giornata
al mio socio, oppure sapere che, qualora lo voglia, proseguirà
da solo lasciandomi ad aspettare. Se mi sento sicuro, voglio
poter proseguire anche se il mio socio non se la sente,
sapendo allo stesso tempo che non me ne vorrà perché deve
aspettarmi. Ci vuole conoscenza reciproca quasi totale.
Nel mio caso, un compagno di cordata è qualcuno con cui
sono abituato a parlare di tutto, senza riserve, prima ancora
di discutere quale montagna andremo ad affrontare. Sono
cresciuto con i miei compagni di cordata, che poi sono anche
i miei migliori amici da sempre: ho l'impressione che sia
inevitabile.
C'è stato un altro periodo della mia vita in cui sono rimasto
senza soci, ma non avevo la pancetta, la stanchezza cronica
non era un problema, avevo tempo da buttare e lo passavo
tutto in alta quota. Avevo gambe, testa, occhi e fiuto allenati
a sufficienza per prendermi i miei rischi e salire da solo
in modo molto lucido.
Oggi un compagno di cordata mi è necessario, non fosse altro
per riprendere la confidenza con quelle uscite che, domenica
dopo domenica, mi portavano verso la primavera, sempre più
in alto, abituandomi via via a sentirmi parte integrante
dell'ambiente che mi circondava.
Io i miei sogni non li lascio per strada, non li abbandono.
Li accumulo. Non ho nemmeno bisogno di spolverarli di tanto
in tanto, perché sempre lucidi sono.
Nel corso della vita accadono eventi e si succedono periodi
che mi portano verso altre direzioni ed altri progetti,
ma ciò significa semplicemente che la lista dei desideri
si allunga e che aumenta la complessità degli incastri che
compongono il disegno complessivo. E' una complessità che
non mi ha mai spaventato, affatto. Per cui, il mio Everest
è sempre lì, da trent'anni almeno, e nel frattempo sono
anche andato a guardarmelo da vicino. Durante il monsone,
per vedere se mi spaventava.
Non solo non lo ha fatto, ma mi ha definitivamente stregato.
Quanti anni ho davanti, potenzialmente, per continuare a
sognare davvero? Dieci? Venti?
Sono tanti, forse abbastanza.
Ma ho bisogno di un compagno di cordata, qualcuno in grado
di sognare come me. Non voglio disperdere i miei sogni solo
perché nessuno intorno a me è capace di crederci quanto
lo sono io. Non posso permettermelo.
O in alternativa dovrei ritrovare le motivazioni per riprendere
ad andare da solo, ma sarebbe oggi un percorso assai più
lungo e tormentato di quanto non lo sia stato in passato.
E io non ho, probabilmente, tutto questo tempo a disposizione.
A proposito: oggi è il secondo compleanno di Orizzontintorno
e sapete una cosa? Passate di qua in più di cinquemila al
mese, ormai da mesi. Grazie.
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18.07 del 27 Settembre 2005
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