Non potete capire da dove sto bloggando. Dopo le ger mongole
in mezzo al Gobi, le yurte dei pastori kirghizi di Tash
Rabat, il bungalow kanako di Lifou e le case tibetane di
Tashi Dzong, eccoci in un altro luogo davvero fuori dal
mondo: questa notte alloggiamo in un'autentica fattoria
Gassho-Zukuri, nello sperduto villaggio di Ainokura, distretto
di Gokayama, Alpi dello Honshu Centrale, un posticino per
raggiungere il quale ci siamo dovuti arrabattare un po'
con un paio di linee secondarie di autobus e macinare a
piedi le ultime centinaia di metri di strada sotto il diluvio
universale. Ma a tutto questo arrivo dopo.
Ora sto invece per farvi una confessione: anche noi, come
i peggiori italiani all'estero da stereotipo, in qualunque
posto si vada al mondo dobbiamo provare almeno una pizza
locale. E non fate quella faccia, chissà che fate
voi. Fate conto che la nostra sia un'indagine demoscopica
e d'altra parte solo così abbiamo potuto apprezzare
la famosa pizza di Noumea in Nuova Caledonia (pizza?),
e scoprire che in Argentina fanno la miglior pizza del mondo
dopo quella italiana, e provare la psichedelica pizza al
montone di Ulaan Baatar in Mongolia.
Adesso vi dico un'altra cosa. Su questo pianeta il concetto
di pizza viene interpretato nei modi più inquietanti,
ma di una cosa potete essere certi: qualunque pizza al mondo
è fatta da una cosa che sta sotto, che più
o meno potete chiamare pane, e da varie cose che stanno
sopra, e quando dico varie cose, intendo esattamente
tutto quello che la vostra immaginazione vi suggerisce.
Questo, perlomeno, è uno dei cinque pilastri fondamentali
del viaggiatore.
Poi arrivate in Giappone, per la precisione a Takayama,
ridente località montana assai rinomata turisticamente,
circa sessantamila abitanti (qui la chiamano "un paesino
di montagna"...). E questa è una pizza margherita,
secondo loro:
Qualora la foto non fosse sufficientemente esplicativa prendetevela
con la Nokia ed annotate: zuppa di pomodori lessati e formaggio
fuso, leggermente gratinata in superficie. No, non abbiamo
la foto della nostra faccia quando ce l'hanno portata. Ecco
comunque la prova definitiva che in Giappone non si mangia
solo sushi. Anzi, per dirvela tutta, noi siamo qui da dieci
giorni ed io devo ancora vederlo il sushi.
Fra parentesi, ho fotografato qualche altro (vero) piatto
locale. Direi che non ci possiamo lamentare, vi pare? Gli
ingredienti sono quasi tutti noti, e quello che non è
noto pazienza. Notare la carne fatta cuocere in tavola su
una foglia di chissaché.
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Questi giorni
sulla nostra tavola
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Altra curiosità. Qui siamo nell'anno 18. No, non 2018.
Proprio diciotto, dell'epoca di non-ricordo-più-che
e mi perdonino quelli che il vero viaggiatore dovrebbe imparare
tutto della cultura locale e delle dinastie degli imperatori
giapponesi: non lo so, lo avevo letto, ma ora non lo ricordo
più e pazienza. Comunque, caso mai doveste pensare
che ve la stia romanzando troppo, ecco qui la prova che non
vi racconto storie, su un biglietto ferroviario:
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14 Agosto
dell'anno 18...
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Poi: l'amico Monte Fuji si è
fatto ben vedere all'alba del giorno della nostra partenza
e così sono riuscito a scattarvene un'altra. Se siete
abbastanza osservatori e vi state chiedendo cosa siano quelle
che sembrano costruzioni sul fianco della montagna, un po'
sulla sinistra, ebbene sì: sono tutti rifugi, negozi,
posti tappa, ecc, disseminati lungo la Kawaguchiko Route,
i cui tornanti si distinguono peraltro benissimo fino in vetta
nella foto a grandezza originale. Capite adesso cosa intendevo
quando dicevo che potete vedere la via di salita a chilometri
di distanza?
Lasciato il Fuji, ci siamo avventurati nel Nagano Ken, ossia
la provincia di Nagano, nelle Alpi giapponesi, nota per le
stazioni sciistiche e per avere ospitato pochi anni fa le
olimpiadi invernali (o erano i mondiali di sci?). Per raggiungere
la nostra destinazione, Takayama, località turistica
fra le montagne segnalata dall'Unesco e rinomata per le antiche
case giapponesi, da Kawaguchiko abbiamo seguito una rotta
un po' inconsueta, passando per Matsumoto e sparandoci cinque
ore di viaggio suddivise fra un paio di treni ed un autobus,
che fortunatamente Leonardo si è dormito per intero.
La rapidissima sosta a Matsumoto ci ha consentito di fare
- letteralmente - una corsa fino al celebre Matsumoto-jo,
che pare sia uno dei quattro castelli più belli di
tutto il Giappone. Dodici minuti cronometrati per percorrere
circa un chilometro dal terminal degli autobus al castello,
che se siete in due più un passeggino con un bambino
di due anni e mezzo dovete moltiplicare per quattro: prima
va il papà, mentre la mamma si ferma in stazione a
giocare con Leonardo, poi cambio staffetta. Se ci sono trentacinque
gradi all'ombra e vi trascinate dietro uno zaino con qualche
chilo di apparecchiatura fotografica, un paio di bottiglie
di tè freddo ed una delle Lonely Planet più
voluminose in circolazione, è anche una buona occasione
per la vostra linea. Se fra il treno e l'autobus avete un'ora
l'impresa è alla vostra portata, se avete solo cinquanta
minuti pensateci bene perché gli autobus per Takayama
non sono frequentissimi.
Infine, se siete dei pivelli, fate come tutti ed andate direttamente
da Tokyo a Takayama in tre ore, prendendo l'ultraveloce shinkansen
e cambiando poi treno a Nagoya, e pazienza per Matsumoto.
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Matsumoto-jo
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Alpi giapponesi,
Nagano Ken, nei dintorni di Kamicochi
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Luogo comune confermato: i giapponesi sono tanti, ma davvero
tanti, proprio proprio tanti. Da Kawaguchiko a Matsumoto il
territorio è praticamente urbanizzato senza soluzione
di continuità, e sto parlando di decine di chilometri
di valli e piccole pianure fra montagne di duemila metri.
Da quello che ho capito, praticamemte quasi l'intero Giappone
è così: i fondovalli e le pianure sono popolati
a tappeto.
Scavalcando le Alpi verso Takayama si ha la possibilità
di vedere quella che pare essere una delle poche regioni ancora
(quasi) incontaminate, se escludiamo qualche diga, qualche
stazione da sci, qualche megaviadotto, qualche superstrada,
qualche elettrodotto, qualche torrente ingabbiato nel cemento,
opera ingegneristica, quest'ultima, che sembra appassionare
molto i giapponesi: il 95% dell'intera rete fluviale giapponese
è forzata fra argini artificiali in cemento, addirittura
fino quasi a tremila metri di quota.
A Takayama alloggiamo in un ostello, e fin qui vabbè,
nulla di strano. E' l'unico posto dove abbiamo trovato un
buco per dormire, perché anche i giapponesi - luogo
comune sfatato - durante la settimana di ferragosto hanno
la pessima abitudine di andare in ferie e quando si muovono,
loro, sono centoventisettemilioni: capite dunque che razza
di casino possa essere trovare un letto libero senza aver
prenotato con almeno tre anni di anticipo.
La particolarità principale di questo luogo, comunque,
è che si trova all'interno di un tempio buddista. Come
potete forse supporre, l'esperienza in sé è
piuttosto zen, anche perché il posto non si può
dire che non sia incantevole. Ma.
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Il nostro
ostello nel tempio di Takayama
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Ma: se avessi letto prima la Lonely Planet. Ché, a
dispetto dei suoi detrattori snob e a saperla usare, per certe
cose continua ad essere un must. Dal paragrafo "Pernottamento
a Takayama", cito: "Hida Takayama Tensho-Ji Youth
Hostel. E' sistemato in un grazioso tempio. Alcuni lettori
ci hanno segnalato di aver avuto alcuni problemi a
causa degli orari che occorre osservare".
Problemi, suvvia... In fondo ti chiedono solo di svegliarti
alle sei e mezza del mattino e se non lo fai ci pensano loro,
con un bel megafono. In fondo ti chiedono solo di sloggiare
alle nove e trenta, e guai a farti rivedere prima delle tre
del pomeriggio. In fondo ti chiedono solo di rientrare prima
delle 21:45, altrimenti te ne rimani fuori, e di spegnere
le luci alle dieci di sera. Insomma, quisquilie. Li odio.
Ora, va detto che io ho sempre odiato gli ostelli della gioventù,
anche quando li frequentavo vent'anni fa perché non
potevo permettermi un albergo e non è che trovassi
sempre un campeggio pronto ad aspettarmi in ogni città
che visitavo. E' che - altra confessione, oggi è la
giornata - io ho sempre odiato sia condividere il cesso e
la doccia, sia il tipico clima da ostello, per cui siamo tutti
giovani yeah, tutti molto viaggiatori, tutti molto hippy,
tutti molto backpackers, ed io sono italiano, e tu sei giapponese,
e tu sei americano, e tu sei israeliano, e noi in Italia si
fa così, e noi invece in America si fa così,
e voi come fate in Giappone, e invece voi in Israele, e siamo
tutti molto giovani e liberi, e parliamo tutti inglese, e
ci vogliamo tutti bene, e dormiamo tutti assieme, e socializziamo,
e bla bla bla bla. Ecco, l'ho detto. E sì, sono vecchio.
Adesso che di anni ne ho quaranta suonati da un bel po', capirete
che no, non ce ne ho proprio più per l'esperienza dell'ostello,
soprattutto se al mattino mi svegliano e mi buttano fuori
a calci, e se devo rientrare entro una certa ora.
A dire la verità noi abbiamo una camera privata, o
meglio: abbiamo un rettangolo di due metri e mezzo per quattro,
quattro pareti di compensato sottile, finestre di carta come
usa in Giappone, una porta di legno scorrevole, un tatami
(che per i non addetti è un pavimento di paglia intrecciata,
tipico delle case giapponesi, dove si vive per terra), tre
materassi alti cinque centimetri, tre piumoni e un ventilatore.
Temperatura in camera prossima ai trentacinque gradi. E Leonardo
che continua sempre più a chiedersi in quale razza
di avventura l'abbiano trascinato i suoi genitori. Lui sì,
è un po' stralunato!
Per onestà devo dirvi che i bagni sono tirati a lucido
e, naturalmente, i water sono ultratecnologici, addirittura
con qualche pulsante in più rispetto a quelli di cui
vi ho raccontato qui.
Devo dirvi anche che pure qui abbiamo Internet gratuito a
banda larga e che tutti sono gentilissimi, a parte quella
vecchia str***a che rompe i c******i a tutti al mattino e
che per farmi uscire dalla doccia mi chiude l'acqua calda
a tradimento mentre sono completamente insaponato, ché
secondo lei alle otto e trenta dovrei essere già fuori
dalle balle. Maledetta megera giapponese, che un ramo di ciliegio
si secchi e le foglie cadendo ti sporchino tutto l'uscio di
casa (tipico insulto giapponese, pesantissimo).
Insomma, l'esperienza nel tempio è zen e mistica, ci
svegliano come in caserma, ma profumando l'aria di incenso
e diffondendo musica di piffero giapponese. Giuro. Naturalmente
si gira a piedi nudi e le scarpe si lasciano fuori all'ingresso,
ma a parte che qua funziona così praticamente dappertutto,
a partire dai ristoranti, a me questa cosa del camminare scalzo
è sempre piaciuta e lo faccio anche a casa, quindi
ben venga. E' dormire (soprattutto) e mangiare per terra che
è micidiale per il mio mal di schiena.
Posso un attimo? Ma perché diavolo non si comprano
delle belle sedie ed un tavolo, un letto come dio comanda,
perché non usano la forchetta ed il coltello, perché
devono per forza ciupparsi le loro zuppette facendo tutti
quei rumori orrendi come i cinesi? Ecco, scusate, grazie.
Adesso torno politically correct e molto interculturalfigo,
anche perché io in Giappone ci sto benissimo, altro
che Cina.
Resta il fatto che Leonardo trova sempre più strano
dover andare in giro scalzo, dormire per terra, mangiare con
i bastoncini e vedere donne che girano con l'ombrello aperto
con il sole a palla: - Papà, hanno l'ombrello, ma
non piove! - Sì Leonardo, sono tutti un po'
fulminati qui in Giappone, non ci far caso, poi torniamo a
casa, ti sveglierai e tutto tornerà normale.
Andiamo dunque a farci un giro per le vie di Takayama, un
po' rintronati dal sonno, insaponati e con il mal di schiena.
E magari cerchiamoci anche un caffè, va', che la colazione
giapponese del tempio se la possono anche tenere, quella sì.
Bella Takayama, ci passiamo tre notti (sob) e un paio di piacevoli
giornate. Caldo torrido, il peggiore da quando siamo in Giappone.
Fradici tutto il giorno, tipo Cambogia durante il periodo
monsonico, e se non sapete com'è chiudetevi in bagno,
mandate il riscaldamento a palla per un'ora e mettetevi vestiti
sotto la doccia con il getto bollente. Ma non dovremmo essere
in montagna, qui?
Di certo in montagna è Shirakawa-go, distretto di Hida,
un'ottantina di chilometri a nord per un paio d'ore di autobus,
anche se poi scopriamo che qui chiamano montagna tutto
quello che sta sopra i duecento metri di quota. E infatti
questo villaggio, altro sito considerato World Heritage
dall'Unesco, si trova a cinquecento metri di altitudine, ma
quando qui nevica - regolarmente da ottobre ad aprile - sono
metri e metri, e la valle rimane isolata.
Shirakawa-go è famosa per le fattorie dal tetto in
paglia a doppio spiovente, uno stile unico al mondo detto
Gassho-Zukuri. A dire il vero, lo stile Gassho-Zukuri
caratterizza l'intera valle di Shokawa, dove appunto si trova
Shirakawa-go, che è solo la località più
facilmente accessibile.
Shirakawa-go è anche il nostro trampolino di lancio
per andarci ad infognare ancor più in mezzo a queste
valli che fino a pochi anni fa erano davvero difficilmente
accessibili. Ed è così che di autobus in autobus
ci infiliamo nel distretto di Gokayama, dove arriviamo sotto
una pioggia torrenziale attraversando orridi e canyon completamente
ricoperti di boschi a perdita d'occhio, e costeggiando decine
di laghi artificiali che, per lunghi tratti di strada, sono
l'unica traccia di civiltà in un territorio ancora
completamente vergine.
Sì, vergine. A parte qualche diga qua e là,
naturalmente. A parte qualche centrale elettrica. A parte
qualche viadotto. A parte qualche torrente incanalato. Eccetera.
Io ve la racconto così, ed è vera, ma è
vero anche che queste valli sono stupende. Ecco, ci sarebbe
qualcosa da dire, magari, sul clima, considerato che sono
quasi sempre immerse nella nebbia, che quando piove (il che
a quanto pare accade piuttosto spesso) vien giù il
diluvio universale, che anche con il diluvio ci sono più
di trenta gradi, e che d'inverno non vengono mai meno di sei
o sette metri di neve.
Sta di fatto che il nostro ultimo autobus, sul quale viaggiamo
praticamente da soli, ci scarica lungo la statale ad una fermata
in mezzo al nulla, sotto una pioggia torrenziale, noi ed il
nostro quintale di bagagli, più passeggino, più
Leonardo. Ora, poiché quassù parlano solo ed
esclusivamente dialetto dell'Honshu e vedere un bianco è
ancora un discreto evento, lipperlì ci viene il dubbio
di essere stati vittima di un simpatico scherzo del Sol Levante,
o di non esserci mica tanto capiti con il nostro amico autista,
il che di per sé potrebbe anche essere un problema,
sia perché di qua non passa praticamente nessuno tranne
quattro autobus al giorno, sia perché è l'una
del pomeriggio e l'autobus successivo, l'ultimo della giornata,
è previsto attorno alle cinque.
Così ci incamminiamo poco fiduciosi, sotto la pioggia,
nella direzione che ci è stata indicata e, miracolo,
dopo solo qualche centinaio di metri, dietro una curva ci
appare Ainokura, la nostra agognata ed isolatissima meta.
Praticamente, il villaggio dei Puffi. Vedere per credere.
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Ainokura,
distetto di Gokayama
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Poche decine di case, molte in stile Gassho, qualche campo
di riso, boschi (ed elettrodotti) a perdita d'occhio, e null'altro.
Ah, sì: acqua a scrosci. Qui siamo ospiti in una vera
e propria fattoria Gassho e quella che vedete qua sotto è
la nostra cena di stasera in compagnia di un'altra famiglia
giapponese e dei padroni di casa. Niente male, eh? Vi avevo
ben detto che vi avrei portato a vedere un po' di Giappone
fuori rotta.
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Cena nella
nostra fattoria Gassho di Ainokura
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Insomma, Leonardo ha fatto amicizia con la bimba giapponese
e tutti insieme trascorriamo la serata (serata? Qui si cena
alle sei e trenta del pomeriggio...) a piegare origami ascoltando
musica folk della valle di Gokayama. Che altro potremmo volere
di più dalla nostra avventura giapponese?
Ecco, sì: trovare il modo di andarcene da qui domani
mattina, visto che in serata dovremmo essere a Kyoto e che
sono almeno trecento chilometri da qui.
Dimenticavo: abbiamo rinunciato ad un'occasione forse irripetibile.
I nostri amici giapponesi ci avevano invitato a trascorrere
il pomeriggio con loro ad un Onsen (tipico bagno termale
giapponese il cui drammatico e complicatissimo rituale si
presta ad una collezione di mostruose gaffes fantozziane)
nelle vicinanze. Avevamo accettato, ma poi, vittime della
stanchezza, abbiamo lasciato perdere. Su, non fate così,
avete ragione. Ma abbiate pietà: già arrivare
fin qui senza finire sperduti nella giungla giapponese ha
richiesto un discreto impegno. Per l'onsen vedremo nel caso
più avanti che si può fare.
E adesso vediamo se l'umts quassù funziona davvero.
Altrimenti ve lo metto in linea domani sul treno per Kyoto.
Se riusciamo a prenderlo.
Sayonara!
Aggiornamento: il segnale c'era,
ma troppo debole. Postato il mattino seguente dal treno Takaoka-Kyoto,
dove naturalmente il segnale è perfetto per tutti i
trecento chilometri della linea... |