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Dice Matteo, mi sembra che alla fine tu abbia ammazzato
anche questo bastardo. In realtà no, per un soffio.
Ma è stata una gran bella avventura, certamente -
a mia memoria - la più lunga, completa e faticosa
che mi sia capitato di affrontare in questi anni nella mia
collezione
di 4000. Per dire, sono rientrato da quattro
giorni e ancora non cammino: non tanto per il mal di gambe
- anzi, quelle sono sorprendentemente a posto, potrei andare
tranquillamente a correre, segno che tutto l'allenamento
di questi mesi a qualcosa è pur servito - ma per
i miei poveri piedi, completamente devastati da ore ed ore
di cammino e migliaia di metri di dislivello macinati con
gli scarponi nuovi.
Piz Bernina, dunque, 4.049 metri, unico quattromila
della Alpi Centrali. Inseguito da
settimane, una partenza rimandata tre volte. Un
conto in sospeso da più o meno una dozzina d'anni,
o forse più, quando con Bruno feci un tentativo primaverile
interrotto alla Capanna Marinelli, a quota 2.800 scarsi,
a causa di una bufera di neve. Una notte trascorsa in rifugio
a sperare che il meteo migliorasse e poi, il mattino seguente,
la resa. Da allora, di tanto in tanto, mi guardo quell'unica
foto che scattai all'epoca e so che la partita è
ancora aperta.
Questa volta sono con Mauro, con cui ho salito la Weissmies
il mese scorso. Mi sono trovato bene, adesso ci conosciamo
un po', voglio quindi rinnovare il sodalizio. Durante il
viaggio mi dice che ha letto quello
che ho scritto a proposito della nostra salita alla
Weissmies. Dice, le gambe sono le tue, lo zaino te lo
porti tu, non è questione di guida o meno. Vero,
com'è però del resto vero che legarmi a lui
e poter fare totale affidamento su una guida mi scarica
(quasi) del tutto la testa di ogni responsabilità
ed ansia. Diciamo, se Mauro mi passa la metafora ovviamente
eretica, che c'è un po' la differenza fra il salire
un ottomila con l'ossigeno o senza.
Però una cosa è vera e devo riconoscerla.
Se sommo tutto, a salire con lui mi diverto e il motivo
è semplice: la testa più libera mi consente
di godermi molto di più i piaceri dell'ascensione.
Credo che questo compensi in buona parte l'evidente aiuto
nell'eventuale successo sulla cima e poi, a dirla proprio
tutta: ma che differenza (mi) fa legarmi a Mauro o, comunque,
ad un socio molto più esperto - come mi accade nella
maggioranza delle occasioni? Tanto a) non sono più
o meno bravo a seconda di quanta (inutile) ferraglia porto
attaccata all'imbragatura e b) salite solitarie di questo
tipo, come dieci e più anni fa, non ne faccio più,
ed è molto meglio così.
Insomma: salire con Mauro mi piace. Imparo, mi diverto,
sono tranquillo.
Piz Bernina: di norma si sale dal versante svizzero partendo
dall'arrivo della funivia del Diavolezza, a quota tremila,
e pernottando al rifugio Marco e Rosa, tremilaseicento metri
circa. La salita dal versante italiano è invece un'avventura
quasi d'altri tempi, come sulle Alpi è sempre più
difficile viverne: non ci sono impianti di risalita, non
c'è copertura del cellulare, l'ambiente del circo
glaciale di Scerscen è meravigliosamente selvaggio
ed isolato. In due giorni, al di sopra dei duemilaottocento
metri di quota, incontreremo solo una persona il primo giorno
ed un paio il secondo.
Dislivelli importanti: si lascia l'auto ai margini di un
bosco, a quota 1.930 metri. Sviluppo dell'itinerario, infinito:
chilometri di valli silenziose, due passi da scavalcare,
la Bocchetta delle Forbici a quota 2.636 ed il passo Marinelli
Occidentale a quota 3.014, ed ogni volta si ridiscende un
pezzo, perdendo irrimediabilmente un po' di quella quota
faticosamente guadagnata.
Tre rifugi lungo il percorso di salita. Al Carate, poco
sotto alla Bocchetta delle Forbici, arrivi in due ore e
mezza circa e dopo esserti lasciato alle spalle i primi
settecento metri di dislivello, il che ti dà anche
la misura di quanto sia distante dal parcheggio dell'auto,
considerato che mediamente si sale fra i trecento e i quattrocento
metri l'ora. Poi, la Capanna Marinelli, a più o meno
duemilaottocento metri: in teoria sono solo duecento di
dislivello dal Carate, in realtà devi scollinare
la Bocchetta delle Forbici, scendere un pezzo, percorrere
con un ampio cerchio la valle di Scerscen e infine risalire
il sentiero a tornanti che si arrampica fino al rifugio:
in poche parole, almeno un'altra ora e mezza. E fra una
cosa e l'altra sei già a quattro dall'auto. Se non
hai fatto pausa al Carate per riposarti, naturalmente.
Di solito la gente si ferma qui alla Marinelli: ne ha abbastanza
e si riserva per il giorno successivo il tentativo al Bernina,
dal quale mancano ancora più di milleduecento metri
di dislivello, lo scavalcamento del Passo Marinelli Occidentale
e - manco a dirlo - chilometri in orizzontale per attraversare
il ghiacciaio di Scerscen. Mauro ed io, invece, proseguiamo:
vogliamo tirare fino al rifugio Marco e Rosa, in cima alla
spalla del Bernina, a quota 3.597, in modo da dormire il
più in alto possibile e, il mattino dopo, svegliarci
a soli quattrocentocinquanta metri dalla cima del Bernina.
Sono già le 14.30 quando ci lasciamo alle spalle
la Capanna Marinelli, nel cielo si addensano grossi cumulonembi
neri: terrà il tempo? La Marinelli è peraltro
deserta: spieghiamo alla biondina che la custodisce che
proviamo a salire fino al Marco e Rosa e che caso mai, dovessimo
rinunciare, ci vediamo più tardi. Ma io so già
che se non dovessi raggiungere il Marco e Rosa l'indomani
non avrei più le forze per tentare la cima da quaggiù:
siamo troppo lontani e troppo in basso. Quindi, nonostante
sia già stanchissimo, per quanto mi riguarda la direzione
è una sola: su.
Arriviamo al Marco e Rosa alle 18.40, immersi nelle nuvole,
con quasi milleottocento metri di dislivello alle spalle
dal punto in cui abbiamo lasciato l'auto e dopo aver risalito
i trecento metri finali a 45° (Mauro: dati guida CAI
;-)) del canalone di Cresta Guzza, evitando anche qualche
scarica di sassi e scavalcando un paio di crepacce terminali.
Dire che sono un uomo distrutto non rende l'idea: ho impiegato
due ore solo per salire gli ultimi duecento metri, dieci
passi e soste di due o tre minuti alla volta per riprendere
fiato, manco fossi sulla cresta finale dell'Everest. Non
ho più un briciolo di energia, di forza, di nulla,
nemmeno di capacità di intendere e volere. Ho impiegato
otto ore e mezza per arrivare fin quassù e l'unica
cosa che riesco a pensare è che mi viene da vomitare,
che i piedi mi fanno un male boia e che le gambe se ne sono
belle che andate. Altro che salire in vetta: dove diavolo
trovo le forze per ridiscendere, domani?? Ma dov'è
andato a finire tutto l'allenamento di questi mesi?
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Piz Roseg
e Scerscen dal passo Marinelli Occidentale
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Il titolare
qui sul ghiacciaio di Scerscen
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Mauro sulla
spalla del Bernina
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In cima alla
spalla del Bernina, presso il Marco e Rosa
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La vista sullo
Scerscen e sul Disgrazia dal Marco e Rosa
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Il panorama dal Marco e Rosa è spettacolare. Sotto
di noi, verso sud, la spalla a fianco della quale siamo saliti
precipita per cinquecento metri sui ghiacciai di Scerscen.
Sull'orizzonte, il gruppo del Disgrazia. Dietro il rifugio,
nascosta, la cima del Bernina. E poi la vista spazia sulla
Cresta Guzza, proprio sopra le nostre teste, e sui Pizzi Zupò,
Argent, Bellavista, fino ai Palù. Un circo glaciale
impressionante.
Ceno svogliatamente con una tazza
di brodo e un paio d'uova, e verso le 21 mi sdraio finalmente
per provare a riposare. Fuori sta scaricando un temporale
piuttosto violento. Al rifugio siamo gli unici italiani e,
peraltro, gli unici saliti dal nostro versante. Gli altri
ospiti sono tutti stranieri, in gran parte svizzeri, e arrivano
dal Diavolezza, o sono già in discesa dal Bernina dopo
la salita della leggendaria Biancograt,
uno dei miei sogni di sempre.
Così stanco non sono mai stato, mai a mia memoria,
a meno della mitica traversata
del Gran Paradiso del 1985 che è ormai annoverata
fra gli aneddoti leggendari da raccontare ai nipoti. Solo
che all'epoca avevo vent'anni e quasi dieci chili di meno...
Sono quasi certo che quando alle 5 suonerà la sveglia,
la mia direzione sarà verso il basso. Non riesco a
pensare ad altro.
L'alba è bella, un po' lattiginosa, ma l'orizzonte
è totalmente sgombro. Fa molto freddo e non ho chiuso
occhio tutta la notte: troppo mal di testa, troppo stanco,
un po' di nausea. Ho sentito la quota e questo no, non me
lo aspettavo proprio. In due parole, sono completamente rincoglionito.
Le gambe mi fanno ancora male. Prendo un té, mangio
un po' di miele e marmellata. Mi chiede Mauro, cosa vuoi
fare?
La risposta la conosco già: proviamo, andiamo su.
Affronto i primi duecento metri lungo il ripido pendio di
neve dura che porta in cresta e devo già fermarmi ogni
dieci minuti circa. Sono troppo, troppo stanco, e le gambe
sono durissime. Anche il fiato è corto, continuo a
sentire la quota. Sono davvero sconfortato, non pensavo proprio
di essere così indietro di preparazione nonostante
tutto.
Accidenti, non ho davvero più vent'anni e, come dice
Mauro, in realtà la mia condizione è paragonabile
a quella di uno che si è rotto una gamba ed è
stato fermo per anni, ed ora sta riprendendo piano piano.
In altre parole, vado già bene considerato che ho ricominciato
solo quest'anno e che ho fatto una decina di uscite, di cui
solo una in alta quota. Ma il Monte Bianco (ah già,
il Monte Bianco!...) me lo posso proprio scordare. Eh sì.
A dire la verità ormai l'avevo proprio capito.
Insomma: posso già essere molto soddisfatto di essere
arrivato fin quassù. Ma intanto, fra una sosta e l'altra,
gambe dure o meno, abbiamo guadagnato ancora quota ad un ritmo
più che accettabile ed alle sette siamo ormai a 3.900
metri. Ormai la cima è lì.
Uno stretto couloir molto ripido di neve dura, incastrato
fra le roccette, mi crea qualche difficoltà: non sono
più abituato a muovermi su un terreno misto un po'
tecnico di questo tipo, meno che meno a questa quota e con
i ramponi ai piedi, lo zaino pesante, i guanti indossati.
Mauro mi tiene, ma io non mi fido più delle mie gambe,
ormai svuotate di ogni energia, e della mia capacità
di giudizio. Sono troppo stanco, c'è poco da fare,
e il terreno richiede comunque attenzione, corda di Mauro
o meno.
Usciamo dal couloir, siamo su una crestina un po' esposta.
Davanti a noi un salto di roccia, una paretina di trenta metri
di altezza da arrampicare, terzo grado, l'ultimo ostacolo.
Sapevo che l'avrei trovata. Non è possibile aggirarla,
c'è poco da fare. La cima del Bernina è lì
davanti a noi, a destra, oltre la paretina.
Guardo l'altimetro: dal rifugio siamo saliti 325 metri. Ne
mancano solo 125. Un'ora, diciamo, nel mio stato. Un'ora per
arrivare in cima, una decina di minuti lassù, un'altra
ora per tornare qui. Dovrei solo salire questa paretina con
i ramponi e i guanti, legato sì a Mauro, ma appeso
lì in questo stato totale di esaurimento fisico.
Mauro mi incita, è un po' arrabbiato perché
pensa che non mi fidi di lui. Dice, che vieni a fare con
la guida se poi non ti fidi? In verità non è
così: mi fido eccome, ma proprio non ho più
un briciolo di energia. Potrei trascinarmi un passo alla volta
su un pendio di neve per altri cento metri, questo sì,
ma mettermi ad arrampicare a quattromila metri, con i ramponi,
lo zaino ed i guanti, l'ansia addosso di scivolare ad ogni
passo - ancorché totalmente in sicurezza, questo lo
so benissimo - e il pensiero, come un incubo che non mi lascia,
dei duemiladuecento metri di discesa sotto di noi che inesorabilmente
ci aspettano, tutto questo no, è troppo. Per me, per
oggi, finisce qui. A centoventicinque metri dalla cima.
Guardo le due cordate che ci precedono affrontare il salto
di roccia. In cima c'è già qualcuno. Quindi,
scendiamo.
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Alba a quota
3.700, salendo al Bernina
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Piz Zupò
e Piz Argent, salendo al Bernina
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In uscita
dal couloir, a circa 3.900 metri
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La paretina
di 30 metri dove mi sono arreso
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...125 metri
dalla cima. A sinistra, la paretina...
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Alle 8.00 siamo nuovamente al Marco e Rosa. Ci riposiamo un
po' ed alle 8.40 iniziamo la lunga discesa. Invece di ripercorrere
il canalone di neve, ci abbassiamo lungo la parete rocciosa
della spalla del Bernina, in cima alla quale sorge il rifugio,
seguendo un percorso attrezzato con catene e staffe metalliche.
Le staffe sono piuttosto lontane una dall'altra e a tratti
è più agevole fare qualche passo di arrampicata
verticale. Gli ultimi metri prima di toccare il ghiacciaio
sottostante sono strapiombanti e né le staffe né
la catena arrivano fino in fondo alla parete. Insomma, con
qualche acrobazia alle dieci del mattino scavalchiamo a ritroso
la crepaccia terminale e ci ritroviamo a quota 3.200 sul ghiacciaio
di Scerscen.
Raccogliamo un paio di bottiglie di plastica vuote abbandonate
sulla neve - perché, perché accidenti esistono
su questo pianeta dei coglioni capaci di spingersi fin quassù,
ma incapaci di portarsi a valle una stramaledetta bottiglia
di plastica vuota, ed utilizzano questo paradiso terrestre
come loro pattumiera personale?? - ripercorriamo tutto il
ghiacciaio, risaliamo al passo Marinelli Occidentale - maledetto
lui - ed alle 11.45 siamo alla Capanna Marinelli. Poi giù,
fino al Carate, risalendo l'interminabile Bocchetta delle
Forbici.
Ore 13. Panino al salame, birra. Finalmente. E infine, la
lunga discesa fino all'auto, dove arriviamo alle 16.
Non ho quasi nemmeno la forza di guidare fino a casa. Cade
qualche goccia di pioggia. Mi rifaccio la domanda di
un mese fa: sono contento? Guardo i miei piedi: bruciano
dal dolore. Ne è valsa la pena, come mi ha chiesto
qualcuno dopo?
Non ho dubbi nemmeno per un istante questa volta. Sì,
sono contento. E' stata una gran bella salita, impegnativa,
lunghissima, in un palcoscenico spettacolare. Una bella avventura
alla quale è solo mancata, per un soffio, la ciliegina
finale. Ma già lo sapete: è solo un conto che
rimane aperto: un paio d'anni, forse, per smaltire il ricordo
della fatica, e poi di nuovo all'attacco per la terza volta,
magari dal versante opposto però ;-)
E dunque sì: eccome se ne è valsa la pena. Io
lassù sono a casa. Come te lo spiego? Se non lo hai
dentro, non lo puoi capire.
Io me ne stavo lassù ad arrancare su quel ghiacciaio,
con l'ansia di non riuscire a battere il temporale, il timore
delle scariche di sassi giù dal canalone, le nuvole
che si addensavano attorno a noi mentre si stava facendo sera,
il rifugio che non si vedeva più, e non avevo più
un briciolo di energia, non avevo più nulla, volevo
solo fermarmi a dormire e non fare più un passo in
vita mia, e continuavo a pensare mai più, mai più
di 'sta roba, non ne ho più voglia, non mi interessa
più, voglio solo starmene sul divano a casa mia a guardarmi
le mie vecchie foto, non ho più la testa per queste
cose. Volevo solo che tutto finisse all'improvviso, lì,
ora, in quell'istante esatto. Che qualcosa, qualunque cosa,
mi portasse via di lì. E non tornare mai più.
Un'ora dopo me ne stavo al caldo al rifugio sorridendo dietro
la mia tazza di té. Il mattino dopo sono ripartito
verso l'alto.
E in macchina, mentre tornavo a casa con un inventario di
dolori che nemmeno ti sto a dire - piedi fracassati, uno completamente
insensibile per metà, gambe di marmo, spalle e deltoidi
crampizzati dallo zaino pesante, gola bloccata dall'aria rarefatta
della notte precedente, collo scottato dal sole, che altro?
- guidavo a fatica e pensavo che tutto sommato è un
peccato, che con i piedi in queste condizioni ci vorranno
almeno un paio di settimane per guarire e dunque, quel tentativo
alla traversata dei Lyskamm che avevo in mente per la prossima
settimana, mi salterà proprio, non ce n'è. E
dunque, come te lo spiego che il rumore dei ramponi che mordono
il ghiaccio e graffiano la roccia, per me, sono come una sinfonia
magica che vibra nella mia aria sottile e che è l'ossigeno
della mia vita?
Non lo so spiegare nemmeno a me. Non lo so perché ci
tornerò lassù, non c'è un motivo razionale,
non c'è una ragione, lo sai, è la conquista
dell'inutile, che te lo dico a fare? E' solo che ne vale la
pena, come vivere. E' il mio vivere.
Infine: quest'anno il mio summit quest finisce dunque
qui. Non è andata come sognavo e la mia stagione adesso
si chiude, ché c'è altro da fare, tipo portare
finalmente i miei due piccoli eroi in vacanza con il loro
papà.
Così, niente Elbrus, niente Monte Bianco, niente Lyskamm
e nemmeno niente Bernina, per un pelo. Ma non importa: ho
davvero ripreso ad andare, senza contare che dopo anni di
inattività quasi totale questi mesi ho riacquistato
una forma più che discreta, ho buttato giù sei
chili e, non ultimo, ho finalmente fatto fuori la Weissmies,
tornando dunque in cima ai miei 4000 e riaprendo la collezione.
Posso ritenermi soddisfatto.
Non appagato: soddisfatto. Il programma per il prossimo
anno è già tracciato.
Sì: è stata una gran bella salita questa al
Bernina. Peccato per la cima, certo. Mauro, mi ci riporti?
La prossima volta passo, promesso.
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