Una delle caratteristiche di un sito web condiviso fra
marito e moglie è che i visitatori, per qualche oscuro
motivo (ma qualche idea in merito l'abbiamo...), lasciano
molte meno tracce del proprio passaggio rispetto ai siti
mantenuti dai single: guestbook quasi disertato, guestmap
desolatamente vuota (un peccato, considerando che riceviamo
visite da oltre 60 Paesi), iniziative per gli ospiti che
giacciono abbandonate nell'angolo. Fra un po' le leviamo,
mi sa.
Solo la newsletter registra numerose iscrizioni, ma immagino
che sia perché richiede meno esposizione in vetrina
da parte del navigatore solitario.
Il mio vecchio Carlo's Web Site, decisamente più
povero di contenuti (molti dei quali sono stati peraltro
ricollocati proprio qua dentro), collezionava più
o meno un decimo delle visite di Orizzontintorno, ma il
volume della corrispondenza con i visitatori, in qualsiasi
forma, era dieci volte tanto.
Per dire, qui oggi viaggiamo sui 700.000 hit, che poi si
traducono in circa 2.000 passaggi mensili per la home page,
ossia sei-settecento visitatori unici al mese. Insomma,
transitano di qui in media circa venticinque persone al
giorno.
A proposito: il contatore di Orizzontintorno è "onesto".
Non conta i reload. Se passate da noi più
di una volta vi ignorerà. Non che non vi voglia bene:
è che, a differenza di noi, che amiamo coltivare
amicizie ben selezionate e ricorrenti, tende a inseguire
volti nuovi. Ma noi lo sappiamo: c'è l'amico che
si collega sempre dal network belga della Coca Cola; c'è
l'olandese che ci naviga quasi tutti i giorni dalla facoltà
di architettura di Amsterdam; c'è l'amica abitudinaria
dal Giappone; c'è una persona che ben conosciamo
che ci legge spesso dalla rete milanese di Unicredito, e
che forse non sa che una sua collega ci visita altrettanto
regolarmente da Verona; e poi c'è lo svizzero anonimo,
e l'inglese della Cowen, e il canadese da Montreal, e quello
(quella?) dell'Università di Trieste.
Noi vi vediamo, curiosiamo nell'elenco degli IP e in quello
delle parole chiave con le quali veniamo trovati sui motori
di ricerca, a volte talmente comiche da aver deciso di aprire
una rubrica
apposta. Per esempio, ditecelo dai: chi di voi è
arrivato qui cercando su Google "Con la temperatura
18.6°C che pesci posso trovare?"
Dicevo: non siete pochi su Orizzontintorno. Ma, a differenza
del vecchio Carlo's Web Site, vi nascondete.
Poi ci sono quelli che lasciano messaggi privati. Perché?
E poi ci sono quelli che, raramente, ci scrivono via e-mail.
Ora: tralasciando coloro che chiedono di poter entrare nella
nostra organizzazione (quale?), o che ci mandano il curriculum
(perché??), o che ci chiedono di organizzargli il
viaggio (come???), vanno sempre più di moda quelli
che vi faccio qualche appunto, o che mi piacete poco, o
che non mi piacete affatto, o che siete due stronzi barbari
(cito: è stato il primo in tempi non sospetti), o
che io al vostro posto.
E vabbé, mica si può sempre essere popolari.
Però, non capisco: scusa, se non ti piace cambia
canale, no? Che poi, qui la politica (e la polemica) la
facciamo molto, molto, molto fra le righe. Ma devi proprio
andartela a cercare.
Comunque. Chiariamo alcune cose: tanto per pignoleria e
per rispondere a qualche appunto.
Il diario
di viaggio di Asia
Overland è, per l'appunto, un diario. Non
è un libro. E' qualcosa che ho scritto per me stesso
e che utilizza un linguaggio diretto: esattamente quello
che utilizzo fra me e me quando annoto qualcosa. Non scrivo
un diario per il pubblico, scrivo per tracciare i miei stati
d'animo e gli eventi che mi interessa ricordare. Quindi
utilizzo un linguaggio che certo non è affatto filtrato
per la pubblicazione.
Il fatto, poi, che abbia messo in rete il mio diario di
viaggio non significa che lo abbia trasformato in un libro.
Non mi sono certo messo a revisionare né il testo,
né la grammatica, né la sintassi. Quello che
volevo era esattamente riportarlo tale e quale, pagina per
pagina, il che ha una valenza completamente diversa da quella
di un testo per il pubblico e l'unica cosa che trasmette
è *esattamente* il mio stato d'animo nel momento
in cui l'ho scritto: che è ben diverso dall'interrogarsi
a posteriori, a casa, svaccati comodamente davanti al proprio
camino, sui gap cultural-socio-economici-storico-politici
e bla bla bla.
Così, se per esempio ho scritto sul mio diario "rompicoglioni"
è semplicemente perché in quel momento mi
riferivo proprio ad un rompicoglioni ed ero incazzato, esattamente
come posso esserlo nel traffico di Milano. Non c'entra nulla
una nostra presunta incapacità di adeguarsi a culture
diverse e bla bla bla di nuovo. Un rompicoglioni rimane
tale, indipendentemente dal colore della pelle, razza, religione,
grado di alfabetizzazione e abitudine a trattare con lo
straniero. Non è che un rompicoglioni indiano rompe
meno di uno italiano, soprattutto quando tu sei stanco,
sporco, affamato e magari anche un po' malato.
Credo che dovrebbe essere chiara la differenza fra l'aver
deciso di mettere in linea il mio vero diario di viaggio
e fare, invece, un'operazione che già fanno tutti,
ossia scrivere un diario di viaggio per il pubblico. Ecco,
io non ho affatto scritto un diario con l'obiettivo di farlo
leggere: ho voluto dare in pasto i miei pensieri primordiali,
giorno per giorno, senza filtro.
Di tono e sintassi completamente differenti sono le lettere
che abbiamo scritto e inviato agli amici durante il nostro
viaggio e il libro che ne è stato ricavato: verrà
pubblicato ad ottobre da una nota casa editrice e in qualche
modo traccia esattamente una sorta di diario di viaggio
parallelo, molto differente da quanto riportato in questo
sito web. Sono parole filtrate, corrette, razionalizzate,
ripensate. E', appunto, un libro e scrivere sappiamo, quando
vogliamo.
Il mio diario di viaggio è tutt'altro che un esercizio
di stile, o di correttezza, o una manifestazione di sani
principi culturali. No, è solo un insieme di stati
d'animo immediati, di dati numerici e di indirizzi. Un diario
di viaggio, null'altro che uno stupido e inutile diario
di viaggio, pensato e scritto solamente da, e per, il sottoscritto.
Delle relazioni difficili con alcune popolazioni, poi, abbiamo
già dovuto dibattere per mesi con decine di persone
che il nostro viaggio lo hanno seguito in diretta e questa
polemica è diventata, in qualche modo, il leit-motif
portante del libro di cui sopra. Mi appello dunque al quinto
emendamento e rimando ulteriori risposte in merito agli
atti del processo, quando verranno pubblicati.
Poi ci sono le fotografie. Ossantapazienza... Io fotografo
quello che voglio, come voglio e quando voglio. Non per
far piacere a qualcun altro. Certi giorni non scatto affatto,
altri li dedico apposta alla fotografia e allora faccio
fuori magari tre o quattro rullini, anche perché,
probabilmente, uno di quegli scatti verosimilmente mi ripagherà
il biglietto aereo.
Il mio occhio non è quello di altri e non entro nel
merito di quello che altri fotografano, di quanto fotografano,
o di come lo fanno. Quindi, perché qualcuno entra
nel merito di quante fotografie scatto io e/o del perché
le faccio?
Io non scatto per addormentare la gente con le mie fotografie.
Normalmente, anzi, me le guardo da solo le mie dia ed evito
accuratamente di annoiare gli amici. Il fatto che in questo
sito vi siano oltre tremila fotografie selezionate dal mio
archivio significa solo che a) avevo voglia di metterle
in rete e b) non c'è alcun obbligo per i visitatori
di guardarle tutte. Anzi, non c'è alcun obbligo di
guardarle proprio, se vogliamo.
Ognuno di noi viaggia con occhi differenti e pretendere
di applicare il proprio metodo al modo di fotografare di
altri mi sembra, quanto meno, un'operazione un po' azzardata.
Io scatto diapositive, Emanuela fa stampe. Fotografiamo
cose diverse ed ognuno di noi fa fotografie per se stesso,
prima di tutto. In questo senso viaggiamo separati, ed è
bene che sia così. Di ogni viaggio produciamo dunque
volumi per lo meno doppi. Ma ciascuno di noi si guarda bene
dall'interferire nella fotografia dell'altro. Non è
che se Emanuela scatta una fotografia io non la faccio perché
tanto c'è già la sua, e viceversa. I miei
occhi sono miei, i suoi sono suoi. Figuriamoci, dunque,
quelli di qualcun altro.
No perché, qualcuno sostiene che non sappiamo goderci
i nostri viaggi perché facciamo troppe fotografie...
Ora, sarà che meglio di me è difficile che
qualcun altro sappia se *io* mi godo o meno il mio viaggio...?
Il mio archivio fotografico contiene oggi circa 100.000
diapositive scattate in vent'anni di viaggi e ciascuna di
quelle foto, per me, ha la propria storia: che non abbiano
alcun significato per altri non è un mio problema.
A parità di contenuti, alcuni fotografi professionisti
che frequento hanno archivi di oltre un milione di diapositive.
Qualcuno, inoltre, non sa bene come funzionano certe cose.
Un esempio? Per fare il calendario
sulla montagna che è pubblicizzato in questo
sito, e che ha venduto parecchie migliaia di copie, la casa
editrice ha lavorato un anno su un volume, che mi ha esplicitamente
richiesto in anticipo, di quasi 500 fotografie. Per selezionarne
12...
Quando pubblico un articolo che contiene mediamente tre
o quattro fotografie, l'editore se ne fa mandare venti.
Per scegliere la copertina del libro, la casa editrice mi
ha chiesto una decina di foto.
Io, dunque, scatto per me stesso e poi, come minimo, raddoppio
per motivi editoriali. Faccio foto artistiche se ho bisogno
di foto artistiche, faccio foto d'archivio se ho voglia
di fare foto d'archivio. Se sono saturo non scatto affatto
e scatto solo se sono in giornata. Se devo fare un ritratto
che mi interessa, è possibile che quella stessa foto
la faccia dieci volte con parametri differenti, per poi
scegliere a casa con calma quale, fra quei dieci scatti,
è quello che più mi colpisce.
Se altri scattano solo trecento fotografie in tre settimane
di viaggio in Africa per farle vedere agli amici, sono affari
loro. Io ne scatto mille per me stesso e per avere del materiale
sul quale lavorare. Perché, se non fosse chiaro,
con le foto ci lavoro, anche.
Se poi agli amici interessa vederle, di solito me lo chiedono
e io mostro loro preferibilmente solo solo una piccola selezione.
Ma *non* scatto per loro. E in rete metto quel cavolo di
foto che mi pare e che hanno significato, prima di tutto,
per me. Certo.
Taglio corto sui commenti e sui giudizi relativi ai nostri
atteggiamenti verso le popolazioni locali. Ognuno può
estrapolare tutto ciò che vuole leggendo i miei diari.
Come ho già scritto da altre parti, dopo vent'anni
di viaggi non devo certo dimostrare a nessuno di saper abbondantemente
superare qualunque gap culturale, dappertutto. Soprattutto
al turista organizzato dei quindici giorni a ferragosto.
E scusatemi, quando ci vuole ci vuole, "cribbio"!
E' vero, ho scritto che non inviamo le foto a coloro a cui
le promettiamo. Mettiamo in chiaro un'altra cosa: io mi
fermo a chiacchierare con un nomade kyrghizo, mangio nella
sua tenda, passo con lui qualche ora intendendomi con tanta
buona volontà e pazienza a forza di gesti e di suoni
gutturali. Gli chiedo se posso fotografarlo, o se sai mai
il caso gli rubo l'anima: lui è tutto contento, dell'anima
gli frega assai e si fa fotografare.
Poi: già è un massacro spiegargli che la mia
reflex non è una polaroid, quindi non posso consegnargli
la foto lipperlì. Provaci tu se ne sei capace. Allora
ecco la bella idea: decide di dettarmi l'indirizzo, così
gliela posso spedire. Già, dettarlo, perché
a scrivere non è capace e anche se lo fosse me lo
scriverebbe con qualche alfabeto incomprensibile. Insomma,
détta: a suoni gutturali, che prova a trascriverli
con il tuo di alfabeto! E, ovviamente, puoi scrivere il
cavolaccio che vuoi, tanto purtroppo lui non può
controllare.
Eccoti infine il suo indirizzo: "wxsdfr skkfdhf skkksls".
Una tenda. In mezzo al vuoto spinto dell'Asia Centrale.
Quanti ne abbiamo raccolti di "indirizzi" così?
E che faccio allora, ogni volta mi metto a discutere a suoni
gutturali del perché e per come non invierò
le foto? Ma per piacere...
Ah, sì: la nostra guida mongola mi aveva dato il
suo indirizzo di e-mail: sono evoluti là, che vi
credete... Ho provato a spedirgliela la sua fotografia.
Non vi trascrivo quello che mi ha risposto un'oscuro server
mongolo...
Capita sempre di ricevere lettere dove veniamo accusati
di comportarci da ricchi turisti colonizzatori nei confronti
di povera gente ignorante. Peccato che coloro che scrivono
viaggino di solito davanti alla televisione guardando Licia
Colò e non abbiano la minima idea, ad esempio, del
fatto che l'approccio cinese verso il turista occidentale
non sia *affatto* dovuto, spesso, alla loro povertà
ed ignoranza, ma ad un radicato razzismo nei confronti dei
bianchi, che considerano culturalmente inferiori. O che
l'aggressività degli indiani di cui parliamo sia
esercitata da gente che appartiene a caste benestanti e
culturalmente elevate, arricchite grazie al mercato del
turismo e proprio a danno di un turismo sano. O che molti
uyghuri non siano affatto povera gente, ma ricchi commercianti
che parlano otto lingue e che sanno benissimo fare il loro
mestiere, da secoli prima di noi.
Vabbè, dai, la pianto qui. Oggi, lo confesso, mi
spiace che questa specie di blog non sia aperto ai commenti.
Non ne ho ancora avuto il tempo, vi giuro. Non è
che fra un biberon e l'altro, di notte, abbia esattamente
il tempo di studiarmi anche l'XML e tutte quelle faccende
lì.
Ma diamine: l'e-mail ce l'avete. Il guestbook anche. Usateli!
Come? Ho appena finito di pontificare contro quelli che
mi scrivono? Eddai, lo sapete che è solo per fare
un po' di polverone. Del resto, se siete arrivati a leggere
fino qua in fondo significa che quello che scriviamo (scrivo
io, scrive Emanuela) vi interessa, bene o male.
Alzate la voce. Caso mai, poi, vi pubblichiamo. Anche se
non ci siete piaciuti. |