|
|
|
Si tratta di un post del tutto autoreferenziale che, di
fatto, scrivo quasi a mo' di appunti personali. Ecco, preferivo
dirvelo fin d'ora, ché è assai probabile che
non ve ne possa fregare di meno di questa storia. Ma la
notte è lunga e liquida, di dormire non se ne parla
e mi viene dunque bene per rimuginare un po' fra me e me.
Riflettevo sulla mia rinuncia di qualche
settimana fa alla vetta della Weissmies.
Mi è capitato raramente in passato di mollare a metà
una salita, tanto più con le difficoltà ormai
alle spalle. Così mi rimane addosso l'impressione
di raccontarmela, e scavo per capire se sia vero quel che
dice Bruno: "Tu avevi già deciso di rinunciare
ancor prima di partire".
Vi avevo avvertito, è tutta fuffa, autoanalisi a
fondo perduto per ingannare il caldo, un esercizio che ha
giusto una qualche utilità per me: se è stata
ansia preventiva meglio capirne il motivo, o al prossimo
tentativo non cambierà il risultato. Anche perché,
se c'è una cosa che so interpretare fin troppo bene
è il mio stato fisico e io so che le gambe per arrivare
fino in vetta, quella mattina, le avevo. Ma in crisi ero,
eccome. E dunque.
A vent'anni ti portano in vetta le gambe e i polmoni. A
trenta ti ci porta la tua sigaretta di vetta, infilata da
ore in una tasca dello zaino, ché se te la fumi prima
schiatti. A quaranta è la testa che ti porta su,
soprattutto se hai smesso di fumare da parecchio. In realtà,
che l'alta quota faccia parte di quegli sforzi aerobici
sopportati molto meglio con l'avanzare dell'età,
non l'ho certo scoperto io.
Comunque è vero: più gli anni passano, più
è la testa a farti salire. E' il fluire dei tuoi
pensieri, per cui lasci che ad occuparsi di condurre la
salita siano il tuo passo, che ormai ben conosci e qualunque
esso sia, e il ritmo del tuo respiro, che puoi anche dimenticarti
di ascoltare; così come puoi salire da solo scordandoti
del tuo compagno, lasciarlo al suo passo, salire con la
sua presenza invisibile da qualche parte, senza preoccuparti
del dove sia, ché non è importante: ciò
che è importante è che ci sia.
Quando è possibile poi, e se sali con gli sci lo
è quasi sempre, salire slegati fa sì che la
tua testa abbia tutto lo spazio necessario per isolarsi
definitivamente e portarti in vetta, passo dopo passo, tu
con i tuoi pensieri e le gambe che salgono da sole. Io perlomeno,
ormai da anni, salgo così.
E' per questo che, una volta fatto il primo passo, la mia
via del ritorno passa sempre dalla vetta. A meno, naturalmente,
di oggettivi ed evidenti fattori esterni al mio passo.
C'erano quei fattori quella mattina
sulla Weissmies?
Ricordo un tentativo di salita solitaria alla Roccia
Nera, più di dieci anni fa: a metà
del ghiacciaio di Verra il calore mi schiantò letteralmente.
Era luglio avanzato, ero partito all'alba da Milano e stavo
salendo in giornata, cosicché era ormai metà
mattinata quando mi trovai ad avanzare in mezzo alla neve
fradicia di quel plateau infinito. Il
sole picchiava verticale come solo in estate su un ghiacciaio
a quota quattromila sa fare. Ero allenato, non fu la stanchezza
a stroncarmi: fu proprio il calore.
Mi accasciai nella neve, solo. Guardai i pendii finali della
Roccia Nera, distanti da me forse ancora un chilometro in
linea d'aria, forse cinquecento metri. Non lo so, non riuscivo
più ad essere molto lucido.
Il ghiacciaio di Verra è bastardo: se lo attraversi
proveniendo dalla Gobba di Rollin, ti stai abbassando e
perdi quota. Lasci alla tua sinistra il versante sud dei
Breithorn e continui a scendere verso le basi del Castore
e del Polluce. La Roccia Nera è laggiù, proprio
poco prima del Polluce. Questo significa, però, che
al ritorno dovrai risalire nuovamente almeno duecento metri
di dislivello, a meno che tu non sia in traversata verso
il Guide d'Ayas ed abbia intenzione di scendere a Champoluc.
Di solito non è così, non fosse altro perché
l'auto l'hai lasciata a Cervinia.
Così me ne stavo lì seduto in mezzo al ghiacciaio,
completamente rincoglionito dal sole, fiaccato dal caldo
e dalla neve molle, con qualche giramento di testa. Mi era
chiaro che non ce l'avrei mai fatta a raggiungere la vetta
e cercavo solo di mettere in fila i pensieri per riuscire
ad alzarmi e tornare indietro. Indietro. Indietro. E dunque
risalire. Risalire quei maledetti duecento metri fino alla
Gobba di Rollin, dove avrei potuto finalmente iniziare la
discesa verso valle.
Sentivo di non avere le forze per risalire quei duecento
metri, ma non potevo certo fermarmi lì. Per qualche
istante mi prese un po' di panico. Stavo male? Avevo bisogno
di aiuto? In lontananza scorsi una cordata sul ghiacciaio,
ma non era a tiro di voce. Provai ad alzarmi appoggiandomi
sulla picozza. La testa continuava a girarmi, ma stavo in
piedi. Mi girai. E iniziai la risalita.
Ci misi un'eternità, ricordo che arrivai in cima
alla Gobba di Rollin che ormai era pomeriggio. Ma poco a
poco mi ero ripreso. Una volta scollinato, bloccai gli attacchi
degli sci e iniziai a scendere, piano, una curva dopo l'altra.
Neve molle, pesante. La Roccia Nera ormai scomparsa alle
mie spalle. Stupida ed inutile montagna, un brutto ammasso
di rocce scure e neve, che volevo salire solo perché
unico, fra i quattromila del gruppo, a mancare alla
mia collezione.
Ci tornai due anni dopo con Francesco, salendo direttamente
da Champoluc, e chiusi così la mia partita. Era proprio
una montagna brutta ed inutile.
Sulla cresta sudest del Mönch
il mio primo tentativo si infranse a due terzi della via.
Francesco faticava con gli scarponi da sci - non esattamente
quello che ci vuole per salire una classica via di misto
con tratti di II e qualche singolo passaggio forse di III.
Salivamo
assicurati, il tempo si stava rapidamente guastando e sulle
ultime lunghezze di roccia non me la sentii più di
tirare. Ero stanco e le nuvole mi stavano mettendo ansia.
Di più, non era proprio il caso di progredire su
quel terreno con Francesco senza gli scarponi giusti, e
la discesa avrebbe richiesto tempo.
Una rapida occhiata alla vetta, ancora distante, ed una
verso il basso. E dunque, faccia a valle.
Ci fermammo a dormire alla Mönchjochhutte. Tornai su
con Cristiano due giorni dopo, questa volta fino in vetta,
dopo aver divorato rapidamente i due terzi già percorsi
in precedenza e di nuovo correndo per battere le nuvole.
Fu una gran bella salita e feci tirare il passaggio chiave,
dove mi ero bloccato due giorni prima, a Cristiano. In vetta
il cielo si era già chiuso, ma tornammo giù
abbastanza rapidi, e peraltro il temporale si dissolse senza
scaricare. Alla base arrivammo che c'era di nuovo il sole.
Anche allo Strahlhorn
sono dovuto tornare una seconda volta.
Nell'estate del '93, al mio primo tentativo, ero con Cristiano
e Francesco con i quali avevo già salito l'Allalinhorn
il giorno precedente. Attaccammo i sette chilometri del
ghiacciaio dello Strahlhorn all'alba, dopo aver bivaccato
sulla morena con le nostre tende. Non c'era una nuvola in
cielo, una giornata stupenda.
Salivo ultimo nella cordata guidata da Cristiano. Le cordate
a tre sono micidiali: ti uccidono il passo, perché
se già è difficile trovare il giusto equilibrio
nella progressione a due, in tre è impossibile. Per
quanta corda tu possa lasciare in mezzo, c'è sempre
uno che va troppo piano, o troppo forte, o troppo irregolare,
o comunque sicuramente con un passo differente dal tuo,
e non c'è nulla di più distruttivo in una
salita che dura ore ed ore del non poterla affrontare con
la tua testa ed il tuo passo. Perché in montagna
si sale con la testa, molto prima che con le gambe. Se va
su la testa, le gambe le vanno dietro, ma se la testa non
c'è, addio cima. Matematico. E perché la testa
ci sia è necessario innanzitutto che sia sgombra
da qualunque condizionamento esterno, a partire dal cercare
di tenere il passo in una cordata a tre.
Il ghiacciaio dello Strahlhorn è infinito ed è
una maledetta trappola per alpinisti poco allenati: se lo
ricorda bene Roberto, che mi accompagnò quattro anni
dopo nella mia prova d'appello. Sette maledetti chilometri
quasi totalmente in piano, pieni di buchi, buchetti e crepacci.
Una
sterminata conca a specchio che d'estate, nelle ore più
calde, si trasforma rapidamente in una fornace. In fondo,
sull'orizzonte, lo Strahlhorn: lo vedi sempre lì,
non si avvicina mai. Tu vai avanti per ore e lui è
sempre lì. E sai anche che quando sarai finalmente
arrivato ai suoi piedi e ti sarai già bruciato buona
parte delle tue energie e del tuo tempo, dovrai ancora salire
praticamente tutto il dislivello fino in vetta, per poi
tornare indietro, percorrere a ritroso i sette dannati chilometri,
e ancora risalire di cento metri per tornare alla Britanniahutte,
che si trova in cima ad un costone roccioso da cui domina
il ghiacciaio.
Hai già capito, dunque, che lo Strahlhorn è
meglio se riesci a salirlo subito al primo colpo. Ed è
una gran bella montagna, credimi.
Insomma: quella mattina d'estate del '93 in testa alla cordata
c'è Cristiano, poi Francesco, poi io. Che mi trascino,
con ancora nelle gambe la stanchezza della salita all'Allalinhorn
del giorno precedente e la visione distruttiva e immutabile
dello Strahlhorn in fondo al ghiacciaio, sempre laggiù,
apparentemente inavvicinabile. Il caldo. Le ore. E la stanchezza.
E il passo spezzato in continuazione. Adesso basta.
Sono passate sì e no due ore da quando abbiamo lasciato
la Britanniahutte. Mi sgancio dalla corda ed urlo a Francesco
che mi fermo ad aspettarli. Non ce la faccio proprio più.
Guardo Francesco e Cristiano allontanarsi sul ghiacciaio
ed ora sono lì, naufrago solitario in mezzo a quella
infinita piana bianca, rovente. Per quante ore dovrò
restare in attesa?
Do un'occhiata intorno: meglio non azzardarsi a muoversi
da soli, senza essere legati. Troppi buchi. E poi, con l'avanzare
delle ore il caldo trasformerà completamente la neve
in pappa, disseminando il percorso di trappole nascoste.
Solo. Sole. Fa un caldo bestia. Finisco rapidamente la scorta
di tè. Ho con me qualche busta di concentrato di
succo d'arancia in polvere. Ne apro una, la rovescio nella
neve e mi faccio così una granita all'arancia.
Ormai sarà l'una del pomeriggio: sono completamente
fuso. Chissà dove sono quei due, li ho persi di vista
da diverse ore. Non ce la faccio più a stare lì,
devo provare a muovermi, a tornare indietro da solo. Non
è prudente, per nulla, lo so. Ma la nostra traccia
è ancora ben visibile e in lontananza posso vedere
la Britanniahutte sullo sperone. Devo solo ripercorrere
a ritroso con molta cautela un chilometro di ghiacciaio,
più o meno. Con cautela. Cautela.
Avanzo piano, passo dopo passo, attento ad appoggiare e
a sentire la neve sotto al mio piede. Dove la neve cambia
colore pianto la picozza per saggiare la resistenza e sentire
se "c'è fondo": non so se serva a qualcosa,
ma l'istinto mi dice di fare così.
Dopo circa un'ora sono completamente impantanato. Ho perso
la traccia, ormai disciolta nella neve fradicia, e mi trovo
in mezzo ad una zona che non mi piace per nulla, piena di
buchi aperti. Non so che fare, tranne fermarmi nuovamente
ed aspettare. Da qui, certo, senza essere legato non posso
più muovermi.
Dopo un po' arriva un altro alpinista solitario. E' in difficoltà
anche lui. Gli lancio la mia corda e ci leghiamo. Finalmente!
Adesso possiamo proseguire: uno fa sicura mentre l'altro
avanza in cerca della via d'uscita da quel labirinto. Tempo
un'altra ora e siamo alla Britanniahutte a goderci il tardo
pomeriggio davanti a una birra.
Francesco e Cristiano rientrano alle tende che è
ormai buio. Francesco è arrivato in vetta, Cristiano
ha mollato un'ora dopo di me e si è fermato ad aspettare
Francesco.
Quattro anni dopo è la fine dell'inverno, e questa
volta ho con me gli sci. Mi accompagna inizialmente Roberto:
più o meno si ferma dove mi ero fermato io nel '93.
Impreca contro il dannato ghiacciaio piatto, si slega dalla
mia corda, si sgancia gli sci e mi dice "Vai pure,
ti aspetto qui".
E proprio qui volevo arrivare, perché è esattamente
a questo punto della storia che mi hanno portato le mie
riflessioni questi giorni.
Quella mattina di fine inverno allo Strahlhorn partimmo
che ancora non era l'alba. Faceva un freddo cane, come poche
volte nella mia vita ho provato, ma la giornata si annunciava
stupenda: un cielo che solo l'alta quota può regalarti
in giornate così, dipinto di quel blu profondo e
intenso, quasi nero, che precede il viola e poi il rosso,
via via che l'alba avanza.
Un freddo cane sì, violento. Indosso il passamontagna,
la maschera antivento e il cappuccio del piumino chiuso
attorno agli occhi, ma il gelo mi entra lo stesso nelle
ossa, attraversa tutti gli strati che mi separano dall'esterno
e mi avvolge ovunque. Eppure sono motivatissimo: so che
questa volta ce la farò. Sto bene, sono allenato,
voglio la cima. Il ghiacciaio non mi spaventa più,
so che sarà infinito, ma ormai lo conosco, ho preso
le misure, e poi questa volta ho gli sci ed è inverno,
i buchi non mi spaventano più. Lo Strahlhorn mi sorride
sette chilometri più in là sull'orizzonte:
la vetta sta iniziando a tingersi di arancione, il resto
è color del gelo, grigio blu, con qualche venatura
di rosa.
Ci abbassiamo, sci in spalla, lungo il sentiero che dalla
Britanniahutte scende al ghiacciaio: quei famosi centro
metri che al ritorno dovremo inevitabilmente risalire, di
nuovo sci in spalla.
Poi la traccia, infinita, dritta, sul ghiacciaio piatto.
E Roberto che dopo un'ora sbotta, vai pure, ti aspetto
qui.
Sì, vado.
C'è qualche altra cordata, ma man mano che si avanza
fa sempre più freddo e presto rimaniamo in pochi.
Passano tre ore. Sono finalmente arrivato in fondo al ghiacciaio,
l'ho lasciato alle mie spalle, e adesso sto risalendo i
ripidi pendii iniziali del versante settentrionale dello
Strahlhorn. Mi fermo e lascio giù gli sci, ormai
non mi servono più. Anzi, mi alleggerisco e lascio
quasi tutto, voglio far presto. Ho troppo freddo, è
quasi insostenibile. Cento metri sotto di me stanno salendo
altre due cordate e ne scorgo un'altra più in alto,
forse mezz'ora avanti a me.
Salgo, slegato, solo. La neve è durissima, a tratti
è quasi ghiaccio vivo. I ramponi graffiano la superficie,
la picozza da piolet morde la neve con rabbia. Salgo, salgo,
salgo. Inizio ad avvertire la stanchezza e la quota. Salgo.
Mi fermo, respiro. Salgo altri trenta passi, mi fermo respiro.
Poi altri trenta passi e ancora sosta. Adesso sto quasi
per uscire sul filo di cresta finale, sono oltre quota quattromila.
Alzo lo sguardo verso la cresta: è spazzata da un
vento a jet che sale dall'altro versante. Il freddo fa davvero
paura. Il termometro che ho legato allo zaino segna meno
32°.
All'improvviso
mi rendo conto che sto ancora indossando i guanti leggeri
di pile e che sono bagnati. Perché non me ne sono
accorto prima? Non sento più la mano destra. Non
me ne sono reso conto fino ad ora, o meglio, ci avevo sì
fatto caso, ma la mia testa era altrove, stava già
correndo verso la cima! Pazzesco!
Provo a massaggiare la mano, ma è dura come il marmo.
Ho i guanti da sci nello zaino: decido di sfilarmi quelli
di pile per cambiarli. Quello che vedo non mi piace per
nulla, anzi, adesso sono davvero spaventato: la mano destra
è bianca. Sì, bianca. Proprio come ho letto
mille volte sui miei libri di alpinismo. I guanti da sci
rimasti nello zaino sono gelati, come tutto il resto, così
decido di rimettere quelli di pile, ma prima devo assolutamente
fare qualcosa per la mia mano. La frego fra le gambe, la
sbatto - letteralmente - contro la picozza e contro una
roccetta che emerge dalla neve per vedere se avverto il
dolore. Nulla. Anzi, devo stare attento e ragionare: se
faccio così rischio di rompermela senza nemmeno accorgermene!
Devo controllare il panico. Mi siedo nella neve e inizio
a fregarla fortissimo fra le gambe, per almeno venti minuti,
finché all'improvviso, finalmente, inizia a bruciarmi
e a farmi un male cane, come se l'avessi immersa nei carboni
ardenti. La guardo: adesso è rossissima. Bene! Sta
riprendendosi, per fortuna me ne sono accorto in tempo!
Un po' alla volta mi tranquillizzo.
Sto ancora un po' lì seduto nella neve. Guardo in
alto: mancheranno forse cento metri alla vetta, al massimo
tre-quattrocento in linea d'aria. Il vento soffia sempre
violento e sulla cresta sopra di me spazza via la neve a
raffiche. Il freddo apparente è spaventoso. Però
non c'è una nuvola e l'orizzonte si perde all'infinito.
Una cordata è appena arrivata in vetta. Non riesco
a staccare gli occhi dalla cima... la decisione è
presa: continuo, non lo mollo lo Strahlhorn. Non riuscirò
più a tornare qui una terza volta, ad attraversare
di nuovo quel maledetto ghiacciaio.
Esco finalmente sulla cresta e vengo quasi abbattuto dal
vento. Devo salire gli ultimi cento metri strisciando e
per fortuna la cresta è larghissima e non c'è
alcun pericolo, a parte il ghiaccio vetro, per cui a tratti
sembra di essere su una pista di pattinaggio.
Ancora un passo. Ancora un passo. Ancora un passo. Mi accascio
sulla picozza, quasi mi sdraio nella neve per resistere
al vento e al freddo. Respiro. E poi, ancora un passo, ancora
un passo, ancora un passo. A circa venti metri dal traguardo
incrocio la cordata che sta scendendo dalla vetta. Siamo
alla base di una piccola paretina di ghiaccio, l'ultimo
ostacolo. Mi faccio scattare una fotografia, in cima non
avrò certo modo di usare l'autoscatto. Poi mi arrampico
sulla paretina ed eccola, la cima. E' circa l'una del pomeriggio.
L'orizzonte è infinito, la giornata è splendida,
il vento ha spazzato il cielo per centinaia di chilometri.
Riesco solo a scattare una fotografia al Cervino e poi mi
si congela la macchina fotografica. Non ho tempo per essere
felice, devo scendere da quassù, immediatamente.
Percorro la sottile crestina di vetta ed arrivo alla paretina
di ghiaccio, che scendo faccia a monte. Poi via, di corsa,
letteralmente, giù dalla cresta con il vento che
mi spinge alle spalle, e poi per il pendio di neve che mi
riporta al punto dove ho lasciato gli sci e la mia roba.
Calzo gli sci e ancora giù, giù, giù,
lontano da quell'inferno di gelo e vento.
Quando raggiungo infine Roberto lo trovo in maglietta, sdraiato
nella neve intento a prendere il sole: sono le due del pomeriggio,
quaggiù l'aria è completamente immobile e
il ghiacciaio è esattamente la fornace che ricordavo.
Sembra incredibile che solo un paio d'ore fa stessi rischiando
un congelamento in quella specie di galleria artica del
vento.
Ci aspettano la risalita alla Britanniahutte e poi oltre
mille metri di discesa fino a Saas Fee con una neve da favola.
Ecco, ripenso adesso al mio Strahlhorn, una delle mie salite
più belle. Cos'è che mi ha portato in cima
(e riportato a casa) quel giorno, e che invece mi è
mancato sulla Weissmies? E i miei primi tentativi alla Roccia
Nera, al Mönch ed allo Strahlhorn sono andati a vuoto
per ragioni e condizioni analoghe a quelle incontrate sulla
Weissmies? Se è così, perché sono qui
a ripensarci in continuazione?
Se cerco di mettere a fuoco le mie emozioni ad anni di distanza,
mi rendo conto che in nessuna di quelle tre occasioni fallite
la mia testa era concentrata sull'obiettivo. Non ci credevo,
punto. Certo non allo Strahlhorn nel '93: la stanchezza
accumulata il giorno precedente e il maledetto ritmo della
cordata a tre avevano minato la mia motivazione fin dalla
partenza. Quando lasciammo il bivacco io già sapevo,
dentro di me, che non sarei mai arrivato in cima. Solo,
non mi fermai ad ascoltarmi. Quando invece tornai con Roberto,
quattro anni dopo, ero assolutamente certo che avrei calpestato
la neve della vetta.
E così sulla Roccia Nera: certo, fu il colpo di calore
a stroncarmi, ma la verità è che io non ero
tranquillo fin dalla partenza. Ero da solo e avevo paura.
Avevo già fatto qualche salita solitaria, psicologicamente
non era per me una prima, ma evidentemente quel giorno la
mia testa non mi aveva seguito. Càpita. Il caldo
non fece altro che dare il colpo di grazia a una motivazione
non sufficiente.
E sul Mönch? Paura, di nuovo. In fondo questa è
la verità. Tiravo io, Francesco non era in grado
di farlo: non aveva né gli scarponi adatti, né
l'esperienza e del resto non era certo tranquillo nemmeno
lui. Inevitabilmente, i suoi timori si riflettevano e contribuivano
ad aumentare i miei. E poi quel cielo che non prometteva
nulla di buono: certo, tante cordate stavano ancora salendo,
e progredivano al triplo della nostra velocità, ma
questo non era altro che un segnale in più che fossimo
noi a trovarci nel luogo sbagliato. Dovevamo scendere, basta.
Quando due giorni dopo tornai su con Cristiano il tempo
non era poi così diverso, anzi. Ma lui era tranquillo,
era più forte di me, era in grado di darmi il cambio
come capocordata. Risultato: a pari condizioni, arrivammo
in vetta senza alcun problema. Io non ero certo più
forte, né più allenato di due giorni prima.
Adesso era la testa, però, ad esserci. E la consapevolezza,
fin dalla partenza, che sarei arrivato in vetta. La verità
è che due giorni prima io sapevo benissimo, dentro
di me, che non avremmo mai raggiunto la cima.
Sì, se mi fermo a pensarci, in qualche modo Bruno
ha letto giusto: io sapevo fin dalla partenza che non sarei
mai arrivato in vetta alla Weissmies. E credo anche di conoscere
il motivo: non sono riuscito a liberarmi della paura di
non poter battere il temporale.
La verità è che se io ci fossi stato con la
testa, le gambe per batterlo, quelle sì, ci sarebbero
state eccome. Ma non ci ho creduto. E così sono partito
lento e ho continuato a salire ancor più lento, in
qualche modo rassegnato. Le difficoltà nel passare
i crepacci, poi, dovute più che altro alla disabitudine
all'ambiente d'alta quota che mio malgrado ho maturato in
questi anni, e il conseguente timore del doverli riattraversare
sulla via del ritorno, hanno fatto il resto. Davanti al
grande seracco io mi ero già arreso, prima ancora
di scavalcarlo. Il fatto, poi, di esserci riuscito non mi
ha certo tranquillizzato, anzi. Salendo, da lì in
avanti, nella mia testa ormai non c'era più la cima
della Weissmies, ma solo il problema del dover riattraversare
quel crepaccio a rovescio. Ho fatto gli ultimi centro metri
aspettando solo il momento buono per dire a Bruno "ora
basta".
E infine posso anche metterci la giacca a vento nuova: avevo
freddo, non mi sentivo a mio agio e di certo c'è
anche stata un po' di classica superstizione alpinistica,
per cui il trovarmi lì senza la mia amata giacca
a vento, solo per un'assurda dimenticanza, è stato
un elemento di fastidio in più che ha contribuito
a minare la mia determinazione.
Certo, col senno di poi, forse, non ce l'avremmo fatta comunque
ad arrivare in vetta in tempo: tutto sommato, di questi
tempi l'allenamento è quel che è, prossimo
a zero. Certo, la via di salita non era poi così
banale come ci attendevamo e il ghiacciaio era molto aperto.
Certo, io ero davvero stanco e la notte precedente non avevo
chiuso occhio. Ma la verità è che quella stanchezza
era dovuta alla sfiducia, non a tutto il resto.
Ecco, ho trovato la mia risposta: sfiducia. Devo solo ritrovare
quella confidenza con il mio ambiente che ho quasi dimenticato.
Perché io mi conosco, e conosco fin troppo bene la
mia testa e le mie gambe. Io lo so: le gambe per salire
c'erano, quel giorno sulla Weissmies.
|
|
|
|
|
|
|
|